venerdì 19 marzo 2021
Coloro che hanno dovuto confrontarsi nel tempo con il decreto in oggetto (“231”) non solo parlando nei convegni o scrivendo articoli su riviste e giornali, ma soprattutto confrontandosi operativamente nella sua reale applicabilità come membro dell’Organismo di vigilanza (Odv) o altro ed in particolare in procedimenti giudiziari legati al decreto, dovrebbero porsi una domanda fondamentale in merito alla sua corretta applicazione ed interpretazione nei fatti, per promuovere comportamenti rispettosi della compliance.
Il decreto a partire dal suo avvio, nel 2001, a seguito di una direttiva europea, si è nel tempo snodato su un percorso applicativo che lo ha reso sempre più rigido e impermeabile alle crescenti problematiche, che ne hanno messo in discussione i suoi assunti di base. Il pensiero unico mai scalfito dal dubbio ha finito per assumere un ruolo coercitivo nei confronti delle imprese, senza differenziare i comportamenti meritevoli dagli altri, mettendo troppo spesso tutti sullo stesso piano, senza distinzioni di sorta. Il giudizio, spesso frettoloso, sull’inidoneità del modello e la sua inadeguatezza hanno portato, ad eccezione di soli due casi, sulla corsia unica del patteggiamento con la sola riscrittura di parti del modello scritto.
Questo orientamento a senso unico è stato favorito dalla mancanza di un confronto serio tra giuristi ed aziendalisti, favorendo di fatto solo i primi e dimenticando quanto il tema della compliance sia nella sostanza un problema aziendale. E solo una conoscenza trasversale dei fatti può contribuire alla lettura corretta di problematiche legate a molteplicità di fattori diversi – tecnici, economici, legali, organizzativi – che si legano fra di loro e non possono essere interpretati disgiuntamente.
Il problema di fondo, non più rinviabile, riguarda il modello culturale che ha incardinato il processo valutativo sull’interpretazione del termine definitorio dell’idoneità e sulla mancata attenzione del ruolo dell’Odv come elemento esimente. Il banale “uovo di Colombo” sta nel fatto che il termine idoneo, nella valutazione dei modelli organizzativi aziendali, è declinato dalla magistratura in base ad un principio deterministico tipico delle scienze esatte, ma nel mondo reale è solo una pura finzione culturale accettata come tale e mai messa in discussione.
È stato creato il mantra del “se c’è un reato, il modello non è idoneo”, di fronte al quale il dibattito si snoda solo su materie giuridiche e non aziendali, che sono alla base dei sistemi di controllo e di audit che consentono di valutare il livello di compliance e porre in essere azioni correttive articolate. La mancanza della declinazione corretta del principio di idoneità porta al rischio di valutazioni opportunistiche, che possono sfociare in forme di concussione mascherata da giustizia parziale.
La vita dell’uomo e le sue attività si svolgono in un sistema probabilistico, in cui l’incertezza regna sovrana ed il determinismo delle scienze esatte è totalmente assente nella realtà umana. “Il problema del tempo e del determinismo non è limitato alle scienze, ma è al centro del pensiero occidentale a partire dall’origine di quella che chiamiamo la razionalità al tempo dei pre-socratici. Come si può concepire la creatività umana o come si può pensare l’etica e la giustizia in un mondo deterministico? Questa domanda esprime una tensione profonda, in seno alla nostra tradizione, che vorrebbe presentarsi al tempo stesso come fautrice di un sapere obiettivo e come paladina dell’ideale umanistico della responsabilità e della libertà” (Ilya Prigogine, premio Nobel per la Chimica).
Noi viviamo nel principio del possibile e delle percentuali di realizzabilità di attività o fatti quotidiani, sulla probabilità che piova o ci sia il sole, se una malattia possa essere guarita o no – il caso Covid è lo specchio del dramma umano, oscillante tra il bisogno di sicurezza dei dati numerici e l’incertezza dei fatti – la probabilità che ci sia o meno una crescita economica o della percentuale di probabilità che un intervento chirurgico vada bene o meno, che un farmaco sia idoneo o no, così potremmo continuare all’infinito.
Noi viviamo ogni singolo giorno in una realtà affrontabile solo con la logica probabilistica che rende il termine “idoneo” definibile, solo in base ai principi internazionali di proporzionalità di un risultato osservato rispetto ad un totale. È quindi del tutto evidente che l’attività aziendale, quella dell’uomo in generale, si svolge in un contesto di precarietà che può essere temperato da comportamenti e metodologie adeguate, ma non esiste la certezza assoluta che ha eretto il mantra fatale del “se c’è un errore, non abbiamo l’idoneità” a verità incontrovertibile non rispondente alla realtà.
A fronte dell’evidenza di una serena ed inattaccabile considerazione, i criteri adottati sull’idoneità del modello finiscono per dare spazio ad una forma di coercizione pericolosa e border line sulla sua legalità. Chi è chiamato a giudicare deve comprendere quale sia il criterio di giudizio più vicino al giusto, per declinare il termine “idoneo” in modo coerente con la realtà e premiare i comportamenti virtuosi. Il criterio di proporzionalità si lega, indissolubilmente, al ruolo dell’Odv a cui compete l’applicazione di metodiche atte a temperare e ridurre l’incertezza, che non è eliminabile ma solo riducibile.
Il ruolo dell’Odv è stato troppo spesso un poltronificio per i professionisti di materie giuridiche. E anche il fatto che non siano richiesti requisiti professionali idonei, né particolari responsabilità, lo rende una sorta di rendita esente da particolari problemi, attribuendo all’appartenenza il requisito selettivo. Ma il merito professionale sta da un’altra parte.
(*) Professore ordinario di Economia aziendale – Università Bocconi
di Fabrizio Pezzani (*)