Covid e sanità privata: vantaggi e svantaggi

lunedì 8 giugno 2020


Lo scorso 2 febbraio il ministro della Salute Roberto Speranza ha trionfalmente annunciato che tre ricercatori italiani dell’ospedale Spallanzani di Roma avevano isolato la sequenza del genoma del coronavirus prelevato dal dna di alcuni cinesi infettati a Wuhan e sbarcati in Italia da turisti un paio di settimane prima. “La sanità italiana è tra le migliori al mondo, è un’eccellenza assoluta che va tutelata”, aveva detto il ministro in quell’occasione. Frasi che, seppur rispondenti a verità, meritano qualche riflessione alla luce dei problemi mostrati dalla sanità pubblica nella gestione dell’emergenza. Pur annoverando tra le sue fila numerosissimi medici, personale infermieristico e manager preparati e seri che ognuno di noi ha conosciuto ed imparato ad apprezzare, tuttavia, la sanità pubblica è stata, storicamente, anche il carrozzone individuato dalla politica per riversare al suo interno, molto spesso, i propri “clientes” attraverso le nomine degli assessori comunali e regionali, dei primari, dei direttori generali delle Asl, dei direttori sanitari e così via.

Ma, nonostante questi “assalti”, che hanno comportato, giocoforza, che non sempre le persone giuste si siano trovate al posto giusto, tuttavia, la sanità italiana si è sempre difesa a testa alta, è ben considerata a livello europeo, ha fornito importanti contributi sia in campo scientifico che in termini di generosità umana ed ha anche pagato un prezzo elevato con oltre 200 morti sul campo, tra medici ed infermieri, proprio per il Covid. In proposito, va ricordato che la risposta sanitaria italiana è stata anche condizionata negativamente da linee guida internazionali dell’Oms attinte a report medici cinesi errati, rispetto ai quali è in corso un’indagine internazionale che sta per giungere a conclusioni clamorose, perché, da anticipazioni giornalistiche, sembra proprio che la Cina abbia truccato le carte, come avevamo anticipato lo scorso 4 maggio, ma, poiché l’indagine è in carico all’Oms, bisogna essere particolarmente prudenti per il possibile conflitto d’interessi.

Inoltre, la risposta sanitaria pubblica è stata ulteriormente indebolita dal mancato aggiornamento del piano pandemico da parte del ministero della Sanità, che, in piena emergenza, si è ritrovato con un piano aggiornato, l’ultima volta, nel 2006, ma, poiché il 30 gennaio era stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale proprio in vista di una possibile pandemia, un suo eventuale aggiornamento era quanto mai opportuno sia per tutelare medici ed infermieri e sia per permettere al ministro di passare dalle parole ai fatti. E, come abbiamo più volte segnalato, tra gli aspetti critici della gestione c’è stata anche la sistematica mancanza di dati sull’esatta diffusione della pandemia, la totale incertezza sulla chiusura di alcune aree a rischio, la gestione confusa delle Rsa e la mancanza di forniture di dispositivi di protezione individuale per i medici territoriali. Infine, anche se la sanità è piena di medici validi, lascia perplessi anche la costante fuga dei cervelli verso l’estero che ha caratterizzato l’ultimo ventennio.

Poiché la sanità pubblica incide sul bilancio statale con costi enormi, la politica, negli ultimi anni, è stata progressivamente costretta a tagliare una parte consistente dei fondi pubblici per tappare altri buchi del bilancio ed il servizio sanitario ne ha fortemente risentito. Effettivamente, secondo il Quotidiano Sanità, dal 2012 ad oggi sono stati tagliati quasi 40 miliardi di euro di spesa sanitaria che hanno prodotto, con riguardo alle strutture, 200 ospedali e 70mila posti letto in meno e, con riguardo al personale, 8 mila medici e 13mila infermieri in meno. Questo progressivo sfoltimento è dipeso dell’enorme costo del servizio sanitario sul bilancio e dall’ingente debito pubblico accumulato dall’Italia, per cui è ragionevole ipotizzare che, in futuro, gli stanziamenti caleranno ulteriormente anche per il potenziale squilibrio dei conti pubblici causato del lunghissimo lockdown.

Quindi, una privatizzazione, totale o anche parziale, del servizio sanitario potrebbe essere una buona via di fuga per ridurre l’ingente spesa pubblica che, sommata a tutti gli ulteriori sprechi a bilancio, rischia di far saltare il banco. Tale riforma, da vagliare attentamente in ordine alla sua congruità, è attuabile con una legge ordinaria di indirizzo generale, in omaggio alla competenza legislativa concorrente di cui all’articolo 117 della costituzione, e va applicata nel rispetto del principio di cui all’articolo 32 della costituzione, in base al quale agli indigenti vanno garantite le prestazioni sanitarie gratuite, per cui, da questo punto di vista, non è applicabile il modello sanitario americano, ma qualcosa di diverso, perché una riforma del Ssn deve garantire le cure mediche a chi non può permettersele. Poiché la sanità pubblica fornisce ancora un valido contributo, una sua privatizzazione può avere senso soltanto se accompagnata da una contestuale riforma strutturale dell’intero apparato statale, che introduca procedure semplificate, a partire da una riforma del sistema fiscale che riduca significativamente le aliquote delle imposte dirette, facendole passare da 5 a 3, con un imponibile minimo al 15 per cento e con un massimo al 30 per cento per i redditi superiori, secondo il modello di cui abbiamo parlato lo scorso 1 giugno. In questo modo, da un lato, verrebbe tagliata, almeno in parte, l’ingente spesa a bilancio e, dall’altro, le famiglie si “arricchirebbero” grazie ad un’importante riduzione delle tasse.

In proposito, secondo un report della rivista Epiprev, le spese sanitarie costano mediamente alla fiscalità generale circa 115 miliardi di euro all’anno, mentre, con l’introduzione del servizio sanitario assicurativo, il costo scenderebbe a 35 miliardi, con un risparmio sul bilancio pubblico di oltre 80 miliardi. Il gettito fiscale annuo a disposizione si aggira sui 500 miliardi di euro provenienti da imposte dirette ed indirette, per cui è evidente l’incidenza della voce di spesa. Inoltre, sempre secondo Epiprev, la conversione in un servizio sanitario assicurativo comporta il costo medio pro capite di circa 1.200 euro per l’assicurazione sanitaria obbligatoria, ma tale spesa va parametrata ad una maggiore “ricchezza” per le famiglie determinata da una contestuale importante riduzione delle imposte. Lo stato deve mantenere il controllo sul sistema sanitario assicurativo anche istituendo una compagnia pubblica che operi come concessionaria esclusiva per le polizze oppure che agisca affiancando le compagnie di assicurazione già presenti sul mercato.

Anche la fissazione normativa di precisi obblighi per le compagnie private garantisce un tetto ai costi, soprattutto, per le famiglie a basso reddito oppure per quelle monoreddito con diversi familiari a carico, perché è legittimo riconoscere agevolazioni in base al reddito, in quanto, secondo l’articolo 3 della Costituzione, l’unica differenziazione ammissibile tra le persone è quella basata sul lavoro e, quindi, sulla conseguente capacità reddituale che dipende dalla tipologia di lavoro svolto. In questo paese la sanità privata è già operativa da anni e rappresenta, attualmente, il 20 per cento del totale del servizio sanitario nazionale globale, ha in carico servizi ospedalieri ed ambulatoriali ed incide, secondo un report di Sos Sanità, con il 31 per cento dei posti letto ospedalieri, ma ha il suo “picco” nel settore della riabilitazione ospedaliera con il 71 per cento del totale. Quindi, la sanità privata ha già superato la fase di rodaggio e, in vista delle imponenti riforme di cui il paese ha bisogno per superare l’emergenza economica in cui sta sprofondando a causa del Covid, una privatizzazione, anche parziale, del Ssn potrebbe essere una delle possibili soluzioni per ridurre sia la spesa pubblica e sia l’enorme debito pubblico che l’Europa ci contesta di continuo.

Quindi, un processo di privatizzazione non fine a se stesso, ma introdotto in un più ampio progetto di riforma anche del sistema fiscale, che preveda tasse più basse e sanzioni penali gravi in caso di elusione o evasione. Ma, la Lombardia, oltre ad essere la regione italiana più colpita dal Covid, è anche il “tempio” della sanità privata in questo paese, per cui, secondo qualche osservatore, le difficoltà incontrate dalla sanità pubblica dipenderebbero anche dal fatto che, negli ultimi anni, in Lombardia, è stato maggiormente investito nel settore privato piuttosto che nel pubblico, ma è stato replicato che le difficoltà maggiori sul territorio sono avvenute negli ospedali pubblici e non nelle strutture private, per cui la sanità privata non può rispondere di ciò che non ha connesso. In effetti, negli ultimi anni, la strutture sanitarie accreditate in Lombardia sono passate dal 20 per cento al 40 per cento, tuttavia, l’attuale ripartizione tra sanità pubblica e privata esclude quasi totalmente quest’ultima dalla gestione dei ricoveri sia in pronto soccorso che nei reparti di rianimazione dove sono maggiormente confluiti i pazienti malati di coronavirus.

Inoltre, il polo privato San Raffaele di Milano risulta aver trattato circa 5.000 casi di pazienti positivi al Covid con esito favorevole. In ogni caso, la discussione è aperta perché la salute è un bene primario ed un eventuale progetto di riforma, con o senza una sua privatizzazione, deve tendere ad un miglioramento effettivo del servizio sanitario, perché i numeri dicono che la sanità pubblica non ha brillato nella gestione dell’emergenza. Mentre, lo stato europeo che si è distinto al meglio nella gestione dell’emergenza sanitaria è stata la Germania, la cui organizzazione sanitaria si basa proprio sull’assicurazione obbligatoria. La Germania ha retto bene l’onda del Covid registrando 8.500 decessi, non proprio pochi, ma che non hanno nulla a che vedere con i nostri 34mila, anche perché la Germania ha 83 milioni di abitanti, mentre l’Italia 60 milioni e, non a caso, la Germania occupa il secondo posto, dietro Israele, nella classifica dei paesi che hanno gestito al meglio l’emergenza sanitaria nel mondo, mentre l’Italia occupa il penultimo posto.

In Germania l’assicurazione sanitaria è obbligatoria e, secondo un report di Germitalia – un ponte di comunicazione tra l’Italia e la Germania – le persone prive di mezzi di sostentamento rientrano gratuitamente nella copertura assicurativa del familiare che le mantiene. Inoltre, le persone non residenti in Germania, se non hanno un lavoro regolare, non hanno diritto all’assistenza sanitaria, ma questo profilo non è applicabile al nostro ordinamento in virtù del già citato precetto costituzionale ex articolo 32, che garantisce le spese mediche agli indigenti. Inoltre, in Germania, sempre secondo Germitalia, il costo dell’assicurazione per i lavoratori dipendenti è a carico del datore di lavoro per il 50 per cento ed il restante 50 per cento è trattenuto in busta paga. La legge tedesca ha introdotto compagnie di assicurazione sia pubbliche che private, operative anche a livello regionale ed anche il costo di ogni visita specialistica è coperto dell’assicurazione sanitaria che, quindi, è convenzionata anche con i medici. Quindi, il sistema sanitario tedesco, basato per l’85 per cento dei casi sull’assicurazione obbligatoria, ha permesso alla Germania di reggere al Covid, unitamente ad una ragionevole politica che non ha mai spento i motori del paese ed ha messo i cittadini a casa su base rigorosamente volontaria, evitando di sanzionare le persone colpevoli di essere andare a prendere un po’ d’aria pura, come avvenuto in Italia. È auspicabile che l’Italia prenda esempio, anche se bisogna ammettere che il sistema sanitario tedesco funziona così bene anche perché è nato nel gennaio del 1871, su disposizione del Secondo Reich, per cui l’Italia potrebbe anche non avere tutto questo tempo a disposizione...


di Ferdinando Esposito