
È notorio che i processi si fanno nelle opportune sedi giudiziarie, sia nazionali che internazionali, tuttavia, è un fatto altrettanto notorio che, ormai da qualche mese, la Cina sia stata formalmente accusata da numerosi Paesi, tra cui gli Stati Uniti, l’India, l’Australia, la Francia, l’Inghilterra, la Germania, ma non dall’Italia, di scarsa trasparenza e tempestività nel comunicare al mondo i rischi che stava per correre dalla diffusione del virus partito da Wuhan e che ha portato in poche settimane l’intero pianeta alla completa paralisi.
Il taciturno ed ambiguo comportamento della Cina ha fatto perdere al mondo diverse settimane, un tempo estremamente prezioso per correre ai ripari e soltanto gli opportuni approfondimenti giornalistici o le eventuali indagini giudiziarie internazionali potranno conferire maggiore trasparenza a questa vicenda.
Allo stato, non si può aprioristicamente escludere che la Cina confidasse nel fatto che il contagio non avrebbe sforato i confini nazionali o che il virus sarebbe diventato rapidamente inoffensivo, tuttavia, la sequenza degli accadimenti a margine di questi ritardi lascia sgomenti ed apre a ben altri scenari.
In effetti, risulta che lo scorso 27 dicembre i laboratori cinesi avessero già sequenziato il genoma del virus, per cui è ipotizzabile la sua presenza a Wuhan già da qualche settimana, quindi, dai primi di dicembre come sostenuto dal New York Times e dalla rivista scientifica Lancet. Secondo l’informatissimo giornalista Paolo Liguori – che è stato il primo in Italia a parlare di un “incidente di laboratorio” mettendo in dubbio la versione cinese anche sul dato che il primo caso di contagio si fosse sviluppato al mercato ittico di Wuhan – i primissimi casi di contagio sarebbero antecedenti e risalirebbero addirittura a novembre.
In ogni caso, i dati del 27 dicembre con cui gli specialisti cinesi avevano sequenziato il genoma di quella che sembrava già una polmonite non comune, ma di tipo Sars, non sono stati ufficializzati immediatamente, ma solo in un secondo momento, l’11 gennaio secondo il New York Times. Tuttavia, secondo un report di “Five Eyes”, cioè, un’alleanza di intelligence che fa capo ai 5 Paesi “anglofoni”, il 3 gennaio “le autorità cinesi avrebbero ordinato sia la distribuzione dei campioni di virus e sia la non pubblicazione del relativo materiale”.
Inoltre, il 14 gennaio la Cina ha fornito all’Oms un report medico totalmente errato secondo cui il contagio da Covid-19 non fosse trasmissibile per via umana e questo dato, senza particolari verifiche, è stato “girato” alla comunità internazionale, via Twitter, dal direttore dell’Oms, Tedros Ghebreyesus, che ha ringraziato la Cina per avere, in qualche modo, “tranquillizzato” il mondo.
Ma, in effetti, c’era veramente poco di cui stare tranquilli anche perché, appena due settimane prima ed esattamente il 30 dicembre, Li Wenliang, il medico trentaquattrenne che aveva segnalato alla polizia il rischio che si stesse diffondendo un virus sconosciuto, simile alla Sars, riscontrato in sette pazienti ricoverati all’ospedale di Wuhan, era stato inquisito dalle medesime autorità di polizia a cui si era rivolto, per aver diffuso il panico senza motivo. Il medico, in seguito reintegrato ed ampiamente riabilitato, morirà due mesi dopo proprio per avere contratto il Covid-19.
Evidente, quindi, l’ostracismo a far trapelare dati che, in quella fase, ha prodotto un deficit di trasparenza sulla reale portata epidemiologica del virus e che ha inciso anche sulla tempestività del contenimento, così come è altrettanto anomalo che le “rassicurazioni” fornite al mondo “via Oms” si siano rivelate totalmente erronee. In questo quadro, solo il 30 gennaio, l’Oms, finalmente uscito dal torpore, ha dichiarato lo “stato di emergenza sanitaria globale”, mettendo il mondo in condizioni di comprendere che non si trattava solo di un problema “regionale” cinese, ma “globale”, cioè, che ci riguardava tutti.
Ma il mistero si infittisce ulteriormente perché, il 31 gennaio, ancora Lancet, ha pubblicato un report di un gruppo di medici di Hong Kong che aveva messo oltremodo in dubbio la “tranquillità” cinese, avendo concluso che “Il contagio avviene in modo esponenziale, la trasmissione umana è ampiamente possibile e molta attenzione va riservata agli asintomatici perché vettori di trasmissione del virus”.
Tuttavia, questi allarmanti dati non sono stati presi in alcuna considerazione dall’Oms che, viceversa, nel proprio rapporto del 24 febbraio, ha recepito le conclusioni mediche cinesi, nuovamente errate, poiché escludevano gli asintomatici dal novero dei vettori di trasmissione, errore rivelatosi fatale perché confluito nelle linee guida dell’Oms che, a loro volta, hanno condizionato negativamente la risposta sanitaria dei Paesi che si sono attenuti. Quindi, una sequenza di errori e ritardi che ha contribuito a trasformare il virus in una pandemia e che, in poche settimane, ha bloccato il mondo. Ma perché Pechino ha commesso errori così gravi e perché l’Oms si è fidata così ciecamente? Degli stretti rapporti tra Cina ed Oms abbiamo già diffusamente scritto lo scorso 27 aprile.
Dal canto suo, la Cina, in linea con la scarsa trasparenza fin qui dimostrata, non ha fornito particolari spiegazioni. Secondo la versione ufficiale cinese del 20 gennaio, il primo contagio si sarebbe sviluppato nel contesto del mercato ittico di Wuhan dove gli animali vengono ammassati spesso in condizioni igienico – sanitarie molto approssimative. Tuttavia, come già accennato, questa versione è stata messa in discussione già il 25 gennaio da Paolo Liguori, il 27 gennaio anche dalla rivista Lancet – e di recente anche da altri organi di informazione tra cui il Washington Post - che, in base alle fonti a loro disposizione, hanno giornalisticamente attribuito l’ipotetica “paternità” del primo contagio non al mercato ittico, ma ad un “incidente” avvenuto in un laboratorio a 200 metri dal mercato.
Tuttavia, sulla presunta “accidentalità” del Covid-19 si è abbattuta la secca smentita da parte di un coro di scienziati che ha respinto, quasi unanimemente, la tesi della manipolazione. Al coro di scetticismo ha fatto eccezione, niente meno, che un ex premio Nobel francese, il virologo Luc Montagnier, che, in un’intervista del 16 aprile, ha avallato la tesi della possibile origine in laboratorio, anche perché: “Il laboratorio di Wuhan era stato allestito anche grazie al contributo francese per ricerche scientifiche riguardanti un vaccino contro l’Aids”. In risposta a Montagnier, il 21 aprile, con un documento a firma di migliaia di esperti, la comunità scientifica ha preso le distanze dalla posizione del virologo, bollandola come una fake news a cui, peraltro, secondo loro, Montagnier non sarebbe neanche nuovo.
Sempre “intorno” a Wuhan, c’è da registrare anche uno dei rarissimi comunicati ufficiali del governo cinese da quando è iniziata questa storia: con un Twitter del 13 marzo, il portavoce del ministero degli Esteri ha ricordato che, lo scorso ottobre, a Wuhan si sono svolte le Olimpiadi militari che hanno comportato l’arrivo da ogni parte del mondo proprio di personale militare e, senza andare troppo per il sottile, ha aggiunto che: “La responsabilità di quanto accaduto potrebbe anche essere dei militari americani giunti a Wuhan in occasione delle Olimpiadi militari, potrebbero essere stati loro a portare il virus”.
Gli Stati Uniti hanno risposto a questa provocazione ufficializzando l’apertura di un’indagine, affidata alla Cia, per approfondire l’effettiva “paternità” del virus e chiedendo ai cinesi la possibilità di accedere al laboratorio per esaminarlo, ma la richiesta è stata seccamente respinta, come facilmente prevedibile.
Tuttavia i primi risultati di questi accertamenti dovrebbero già essere in possesso degli Stati Uniti perché, secondo il quotidiano Il Messaggero del 2 maggio, ancora l’intelligence “Five Eyes”, in un suo recentissimo report, ha accusato senza mezzi termini la Cina di un presunto “assalto alla trasparenza internazionale”, poiché: “ha creato il virus in laboratorio, ha mentito sulla trasmissione da uomo ad uomo, ha fatto sparire gli elementi informatori e si è rifiutata di collaborare con le altre nazioni per sviluppare un vaccino”.
Accuse pesantissime. Che, però, hanno già trovato conferma ufficiale il 3 maggio nelle parole del Segretario di Stato americano Mike Pompeo, secondo cui: “Il governo americano ha le prove che il virus sia uscito dal laboratorio e non dal mercato ittico di Wuhan”. Lo stretto collaboratore di Donald Trump ha aggiunto che “La Cina ha fatto di tutto per nasconderlo al mondo”.
Non si può fare altro che rimane in attesa di futuri sviluppi, ma è, comunque, evidente che i danni cagionati dal Covid-19 sono devastanti e la Cina non solo dovrà dare delle spiegazioni, ma dovrà anche risponderne se venissero accertate eventuali responsabilità per la mancata condivisione di dati e notizie che avrebbe permesso al mondo una risposta sanitaria diversa e più efficace.
Tuttavia, come detto, i processi si fanno nelle competenti sedi e, in base al diritto internazionale vigente, non è così immediata l’individuazione di un “giudice” competente, anche se non si può prescindere da un “consesso internazionale”, in particolare, in ambito Onu, in modo da fornire opportune garanzie.
Al riguardo, secondo il Trattato Istitutivo di Roma, la Corte Penale Internazionale dell’Aja può esaminare crimini commessi ai danni della comunità internazionale, ma è solita processare le persone fisiche e non gli Stati, tranne che a sollecitare un suo intervento straordinario sia il Consiglio di Sicurezza Onu che, ex art. 13 dello Statuto di Roma, può sottoporre alla sua attenzione controversie non di sua competenza ma che abbiano prodotto attriti internazionali tra stati membri e che siano stati preliminarmente investigati dal Consiglio stesso. Tuttavia, la Cina, pur facendo parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, non risulta aver aderito al Trattato di Roma, per cui rimane l’interrogativo.
Merita un accenno anche la via “giudiziaria” intrapresa dall’India che, lamentando la violazione di leggi internazionali a tutela della salute, si è già ufficialmente rivolta all’Alto Commissariato Onu per i diritti umani per fare “causa” alla Cina, anche se l’Unhchr non ha competenze giudiziarie in senso stretto, tuttavia, fornisce qualche garanzia in ragione della sua sovranazionalità.
Mentre le domande giudiziali di risarcimento da “occultamento dati” contro la Cina presentate nei Paesi in cui sono stati cagionati i danni patrimoniali - in Texas già pende una class action da 20mila miliardi di dollari, in Italia ne pende una simile innanzi al Tribunale di Belluno - anche se processualmente ammissibili, costituiscono una strada impervia, poiché il titolo esecutivo difficilmente troverebbe sbocchi satisfattivi considerata la impignorabilità e l’extraterritorialità dei beni di controparte presenti sul territorio nazionale.
I futuri sviluppi saranno decisivi anche per comprendere se, dove e quando sarà allestita questa nuova “Norimberga” che, questa volta, vedrà sul banco degli imputati non la Germania Nazista ma la Cina Comunista.
Aggiornato il 04 maggio 2020 alle ore 14:17