martedì 14 aprile 2020
Quando un professionista – chiunque egli sia – dà corso alla sua attività, è tenuto a mettere in pratica, osservandolo scrupolosamente, il cosiddetto “principio di precauzione”, a tutela dei soggetti che potessero subire il “rischio” di un qualunque danno dalla stessa. Si tratta di un principio ben noto da tempo ed ampiamente riconosciuto ed adottato in vari settori del vivere civile, per esempio in tema di tutela ambientale in sede nazionale ed internazionale e, successivamente, anche nell’ambito della valutazione della necessaria diligenza nell’esercizio delle professioni. Per esempio, se un chirurgo può scegliere, nell’eseguire un intervento particolarmente difficoltoso, fra due soluzioni tecnicamente possibili, in base al “principio di precauzione”, è tenuto a preferire – a parità di risultato – quella che implichi per il paziente il minor rischio possibile. Lo stesso dicasi per tutte le altre professioni, tutte; tranne, tuttavia, per quella di giudice: e non si capisce perché. Infatti, a scorrere, anche velocemente, le vicende giudiziarie italiane degli ultimi venticinque anni, vien fuori che, in alcuni casi, i giudici hanno adottato un principio opposto a quello di cautela e che potremmo definire “di spregiudicatezza”.
Emblematico esempio la introduzione nel nostro sistema giudiziario di un reato di formazione giurisprudenziale, quale il concorso esterno in associazione mafiosa, il quale non solo viene contestato dalla pubblica accusa come nulla fosse, ma viene anche posto a base di condanne cospicue da parte dei giudici in modo imperturbabile, come la cosa più normale del mondo. Questo stupefacente effetto negativo viene probabilmente propiziato dal fatto – in se molto grave – che i giudici probabilmente stentano a porsi la domanda fondamentale circa il loro ruolo, e che è la domanda ontologica determinante (come ben sapeva il pensiero greco): che cosa è il giudice?
Ebbene, il giudice del dibattimento è colui che sottopone l’accusa avanzata nei confronti dell’imputato ad una autentica “prova di resistenza” – in senso epistemologico diremmo ad un tentativo di falsificazione – soltanto superando la quale sarà possibile giungere ad un giudizio di colpevolezza, altrimenti impossibile. Insomma, è come se il giudice ponesse alla pubblica accusa una tacita “sfida”, quella appunto di riuscire a dimostrare la colpevolezza dell’imputato “oltre ogni ragionevole dubbio”, essendo tenuto ad assolvere in caso di mancata o insufficiente dimostrazione. Ne viene ovviamente che, in questa prospettiva (ma davvero non vedo quale altra si possa assumere), il processo è un vero diritto dell’imputato, il quale giustamente lo rivendica come tale in ogni caso in cui ne vanga privato, come accade per esempio nei regimi totalitari passati (Unione Sovietica) e ancora presenti (Cina e Turchia). Ma se è così, va subito precisato che il giudice non potrà mai porsi – come stancamente si ripete con ignoranza pari alla arroganza – “contro” qualcosa o qualcuno, fosse pure la mafia o una diversa organizzazione criminale.
Pensare in questo modo, è soltanto il frutto di un pericoloso strabismo mentale, capace di stravolgere ruoli e identità istituzionali, e che finisce con l’assegnare al giudice il compito che invece spetta alle forze di polizia e in genere al potere esecutivo quando persegua l’individuazione dei responsabili dei reati. Al giudice, in uno Stato di diritto, non spetta lottare contro nessuno: spetta soltanto sottoporre ad una accurata verifica processuale l’ipotesi accusatoria formulata dalla Procura, a tutela dell’imputato. Ecco perché quando il giudice – ed è accaduto ormai molte volte – lascia transitare nel processo un’accusa formulata nei termini del concorso esterno in associazione mafiosa, viene meno al suo compito, dal punto di vista specifico del principio di cautela e del rispetto che gli è dovuto.
Non intendo qui entrare nel merito della legittimità di una tale formulazione accusatoria, che si dovrebbe problematizzare sia dal punto di vista della coesistenza con il reato di favoreggiamento, sia da quello della inesistente perimetrazione della fattispecie incriminatrice. Mi fermo invece sulla soglia di tali questioni, per denunciare soltanto – come molti hanno già fatto, ma invano – che si tratta di una accusa che non trova riscontro in nessuna norma del nostro ordinamento giuridico e che perciò viola gravemente il principio di legalità proprio di ogni Stato di diritto, come sancito dal nostro codice penale, secondo il quale nessuno può essere punito se non per un fatto “espressamente” previsto dalla legge come reato.
Non “implicitamente”, non “tacitamente”, non “allusivamente”, ma “espressamente”, che vuol dire appunto in modo esplicito, dichiarato, non allusivo. Né vale richiamarsi in proposito al fatto che esistono già la norma che punisce l’associazione mafiosa e quella che prevede il concorso nei reati: si tratta comunque di vedute molto discutibili e talmente fragili da aver fatto riempire intere biblioteche di articoli e saggi di avviso diverso ed opposto. Insomma, una cosa è certa e cioè che questa formulazione accusatoria non lascia di suscitare molte e serie perplessità circa la propria legittimità. Su ciò tutti convengono. E allora? Ne dovrebbe venire di filato che il giudice, di fronte a tanta incertezza, in ossequio al principio di cautela, dovrebbe rifiutare una tale formulazione, allo scopo di non esporre l’imputato al “rischio” di esser condannato per un reato non previsto dalla legge come tale. Questa sarebbe la normale conclusione, se il giudice fosse consapevole del proprio ruolo e si ritenesse – come dovrebbe essere – il garante della legittimità dell’operato della pubblica accusa sia nei confronti dell’imputato, sia della collettività.
E invece cosa accade? Accade per esempio che quando circa cinque anni fa, un Gip di Catania archivia l’accusa mossa a Mario Ciancio Sanfilippo – editore e proprietario de La Sicilia – di concorso esterno (poi ripristinata dalla Cassazione), in quanto di mera creazione giurisprudenziale, il capo dell’ufficio si precipita a dichiarare pubblicamente e a scanso di pericolosi equivoci trattarsi di una decisione “personale e isolata” di quel giudice, mentre invece l’orientamento di tutti i componenti dell’ufficio, egli assicura, è l’opposto: tutti ritengono il concorso esterno più che legittimo. Il che suscita non pochi, e inquietanti, dubbi in chi voglia prendere sul serio quella dichiarazione: le decisioni dei giudici non sono tutte personali o forse sono prima concordate, come parrebbe essere? E come? E da chi? E perché? E il dissenso non ha posto? E il libero convincimento di ogni giudice dove va a finire? E come mai tanta fretta e tanta foga nel prendere le distanze da una normale decisione, per quanto non condivisa? Cosa si temeva? Cosa si teme? Non è chiaro. O, forse, lo è fin troppo.
di Vincenzo Vitale