Virologi in famiglia

Tramontata l’era del medico di famiglia e delle consuete visite ambulatoriali, con annesse richieste di certificati di malattia, causa epidemie e psicosi relative, ecco una nuova figura da serie televisiva, anche quasi omonima, farsi avanti: il medico, esperto di virologia, in famiglia. Quello che entra ogni sera nel nostro immaginario grazie ai Tiggì dell’era del Coronavirus. E in realtà è proprio il mezzo televisivo a trasformare gli uomini che svolgono una certa funzione, magistrati, medici, gli stessi giornalisti, in dei “mostri”.

Cioè in creature mitologiche predicanti i rimedi certi per guarire le storture della natura dell’uomo. Nonché come ovviare alle disgrazie che promanano dalla natura: terremoti, epidemie ecc. Gli altri mortali lavorano (o tentano di farlo) e basta, loro sono sempre in missione per conto di Dio. Per citare i Blues Brothers. Un gradino al di sopra degli altri animali umani in un ideale mondo orwelliano.

L’Italia finalmente divisa secondo zone rosse. E che Dio ce la mandi buona. Ognuno a casa propria come nel famoso “gioco dell’uva” che ci raccontava – e ci ricorda – la mamma della nostra infanzia, quando era stufa di aspettare che finissimo di giocare con gli amichetti figli delle sue amiche. Dopo relativa visita a casa loro. Ecco quindi che il processo di infantilizzazione forzata di un intero Paese diventa il passo successivo – oggi lo si chiamerebbe step – per il capolinea di uno stato autoritario.

La giustizia amministrata secondo il principio esegetico del “diritto vivente”, cioè il fine che giustifica i mezzi. E la sanità pubblica come cardine del controllo sociale. Con i quisque de populo e la cittadinanza in balia dei camici bianchi. Un po’ come nella Unione Sovietica di Stalin e di Breznev. Da lì a rinchiudere i dissenzienti in manicomio il passo sarà più breve di quanto si pensi.

Aggiornato il 10 marzo 2020 alle ore 13:37