lunedì 9 marzo 2020
“1988: l'indice di criminalità negli Stati Uniti raggiunge il quattrocento per cento. Quella che un tempo fu la libera città di New York diventa il carcere di massima sicurezza per l'intero Paese. Un muro di cinta di quindici metri viene eretto lungo la linea costiera di Jersey, attraverso il fiume Harlem, e giù lungo la linea costiera di Brooklyn. Circonda completamente l’isola di Manhattan, tutti i ponti e i canali sono minati. La forza di polizia statunitense, come un esercito, è accampata intorno all'isola. Non vi sono guardie, dentro il carcere. Solo i prigionieri e i mondi che si sono creati. Le regole sono semplici: una volta entrati, non si esce più”.
Sono le parole, con la voce femminile di Jamie Lee Curtis, che aprono uno dei più grandi film di sempre Escape from New York. Quello che molti si sono chiesti è perché l’isola di Manhattan, nella finzione distopica di John Carpenter, sia divenuta ciò che è, quindi pochi sanno che ciò è dovuto a un attacco batteriologico virale. Sì, un virus letale che ha contaminato parte di New York, arrestato nella lunga isola sul fiume Hudson, ma che ha reso pazzi i suoi abitanti. Di conseguenza l’esercito ha eretto un vallo di contenimento lungo gli argini e poi successivamente quel micromondo è stato utilizzato come carcere di massima sicurezza. Il resto della storia narrata nel lontano 1981 dovreste conoscerlo, ma qui da noi, non c’è nessun eroe di guerra decorato, nessun “soldato anarchico” in grado di risolvere la questione con un volo cieco su un aliante, anche perché i colpevoli principali di questo “muro” troppo tardi elevato, sono tutti al di fuori di esso.
Il Presidente degli Stati Uniti finisce dentro l’isola soltanto per un incidente, nel nostro caso stanno invece tutti tranquilli e al caldo dei loro uffici a Montecitorio e al Quirinale. La faccio tragica? Non so se lo sia, di certo hanno dato prova evidente di essere patetici, incapaci, e di aver assunto un atteggiamento schizofrenicamente melodrammatico passando dal “non è nulla” all’emanare misure di sicurezza talmente pesanti da far temere che il prossimo passo potrebbe essere la militarizzazione, e forse non da parte delle nostre forze armate ma di quelle con appuntata sulle uniformi la scritta “U.S. Army”. Questo blocco produrrà danni enormi alla collettività, non tanto allo Stato quanto ai singoli, a tutti quei privati cittadini che vivono del loro proprio lavoro, magari in campi ritenuti superflui quali la cultura, l’arte, lo svago. L’Italia è a rischio spegnimento a causa della dabbenaggine insipiente di un gruppo di nullafacenti portati ad avere un considerevole stipendio mensile in cambio della loro totale inadeguatezza.
Mentre la marea virale avanza, veramente pericolosa o meno che essa sia – mi giungono in continuazione notizie contrastanti tra chi mi dice, autorevole fonte medica, “è una bufala”, a chi altrettanto autorevole fonte militare, mi consiglia di procurarmi sin da ora una tuta Nbc e una maschera antigas coi filtri attivi – intanto trascorre la nostra vita, forse non tutti se ne rendono conto, in uno stato di sospensione limbica, che mi induce a pormi la domanda delle cento pistole: “Cui prodest”? A chi giova tutto ciò? Qual è il vero fine ultimo?
Non mi interessa di fatto se il coronavirus, Covid-19 giunto alla sua presto ventesima mutazione, sia uscito da un laboratorio militare cinese con la stupida “complicità” di un’altra nazione, e non mi interessa neanche se sia invece un fenomeno naturale, segnale del mondo che si ribella a sé stesso, sono sufficientemente pragmatico da smettere di pormi domande inutili quando tanto so che non avrò mai una risposta e che sarebbe più facile conoscere quanti angeli danzino sulla punta di uno spillo che conoscere la vera realtà dei fatti che ci hanno condotto all’oggi; per cui, soltanto per mia scelta “anarchico-individualista” se volete, continuerò a vivere senza farmi incatenare dai ceppi della paura artatamente creata e indotta, ma senza neanche credere che dietro tutto questo non ci sia ben altro, forse dia ancora più terribile, che deve accadere.
Ma noi resisteremo, “Si Deus vult”.
di Dalmazio Frau