Terapia di gruppo da Floris

Ieri sera da Giovanni Floris a diMartedì mancava solo Carlo Verdone e poi sarebbe stato il perfetto remake di un suo film del 2003 “Ma che colpa abbiamo noi”, dove i personaggi affrontano, ognuno per il suo disturbo ossessivo o vissuto difficile, una terapia psicanalitica di gruppo. È stato a dire il vero bellissimo, un’ esperienza da Lsd, trasfigurare Concita De Gregorio nel ruolo che fu dell’altra “compagna” Margherita Buy e vederla interpretare  il  personaggio dal carisma maieutico di psicologa del partito di Repubblica.  

Ieri sera abbiamo assistito ad un buon teatro d’avanguardia, è stata  una seduta catartica e corale in diretta tv di mea culpa ripetuti ed eviscerati  sul fallimento del Partito Democratico.

Ascoltare Pierluigi Bersani che evoca il Minosse di Dante, Stieglitz e Piketty - notoriamente  letture da toilette di ogni operaio metalmeccanico moderno, magari immigrato - è stato, a dir il vero, quasi come in un libro di Bulgakov:  un processo pilatesco dai confini onirici dove egli ha fatto apparire, per l’incanto degli spettatori, in una nuvola mistica e impalpabile, persino un Manifesto del Socialismo Europeo sorretto da puttini alati  e ammantati in una coltre dorata.

L’incanto però dura poco e si spezza quando il nostro deve vedersi brutalmente  trascinare in basso,  alla triste realtà della contingenza temporale a cui noi umani siamo sfortunatamente legati, niente po’ po’ di meno che da Carlo Calenda, impavido nuotatore di laghetti montani che da ieri sera è ufficialmente l’araldo  del hic et nunc e che, come un carro armato, riporta  il discorso dai massimi sistemi al – vano – tentativo di ottenere da Bersani una risposta su quale sia almeno un punto programmatico del Pd su cui il benzinaio filosofo non sia d’accordo.

C’era negli occhi del vecchio Bersani quella mestizia, quella dolcezza, quella poesia nostalgica, quell’ amarcord felliniano che anche  l’ormai onnipresente Andrea Scanzi ha colto e coccolato col sussieguo dovuto al venerando amico del  tempo che fu.

Ma forse non dovremmo parlare del giornalista del “Salvadenaio” e aspettare per farlo l’ autorizzazione formale delle loro maestà alla nostra esistenza.

Nel frattempo però, possiamo dire che ne abbiamo apprezzato soprattutto le calzature stilose e aggiungere peccato, perché per una volta il nostro smilzo preferito aveva detto anche cose intelligenti e, incredibilmente, condivisibili. Riprova che i miracoli esistono e che la psicanalisi funziona anche la mancanza di un dialogo con i cinque stelle rimproverata al Pd dal giornalista del Fatto, ma  che era un po’ inutile sottolineare visto che continuerà, per reciproca convenienza, fino a che entrambi i partiti non saranno alla canna del gas elettorale e saranno costretti a smetterla di snobbarsi. E, sempre che entrambi i partiti per quell’epoca esisteranno ancora  o, quantomeno, così come li conosciamo e non scissi, esangui di diaspore o proprio fatti a brandelli.

Dopodiché, persi in un tourbillon di sensi e suggestioni, siamo entrati nel vivo di una di quelle serate in cui conveniva non andare a dormire se si voleva finalmente capire cos’è la flat tax proposta dal governo giallo-verde e come funziona, quali sono il suo scopo e la sua progressione,  illustrateci in un triangolare tra Armando Siri, Calenda e “l’osservatore” Cottarelli ( che sarebbe un bel titolo  per un  giallo col serial killer insospettabile). Alla puntata si sono aggiunti  in corso d’opera il “Ministro delle Acconciature” - così definito da Gene Gnocchi - Toninelli e, come in ogni comédie française che si rispetti e per fortuna in chiusura,  quella  fantesca cattiva di  Elsa Fornero.

Il tutto contornato da qualche comparsata troppo breve di altri giornalisti in studio, tipo Laura Tecce di Libero e Stefano Zurlo de Il Giornale a cui hanno fatto toccare palla giusto il tempo di un calcetto moscio rotolato a fondo campo, a mo’ di siparietto surreale della serata esistenzialista dove mancavano solo i maglioncini neri a collo alto, una chaise longue e qualche metallizzato scarabeo junghiano.

Resteranno per sempre scolpiti nelle nostre menti quell’intimistico “voglio essere capito” del grande vecchio Bersani che vuole  rimettere in piedi la sinistra e la diatriba, che ormai è un cerchio piatto, un disco stra-rotto, sul “se vogliamo tentare di dire qualcosa di sinistra”.

Ma il “devi tenere un po’ lontano lo  Sputnik perché se no ti prende su” di Bersani is the new smacchiare i giaguari.

Seratona.

Aggiornato il 10 aprile 2019 alle ore 17:47