
Sulla vicenda del piccolo Alfie Evans, affetto da patologia neurodegenerativa e morto all’Alder Hay Children’s Hospital di Liverpool dopo che i medici lo hanno staccato dai macchinari che lo tenevano in vita, è lecito nutrire più dubbi che certezze.
Non c’è però da rimanere sorpresi che del caso si sia scritto e parlato più in Italia che nel Regno Unito, dove peraltro la notizia della concessione della cittadinanza italiana è passata inosservata, così come assai poco rilievo hanno avuto sui media gli appelli del Vaticano. Gli inglesi, sempre pragmatici, hanno la tendenza ad affrontare i problemi in maniera “scientifica”, senza indugiare su aspetti politici o religiosi, come invece sono portati a fare i popoli a più basse latitudini.
In Italia molti hanno gridato allo scandalo perché i giudici inglesi si sono pronunciati sulla questione vita/morte, decidendo che non rappresentava il best interest del piccolo continuare il trattamento né trasportarlo in un altro Paese per continuare a seguirlo. Va tuttavia ricordato che anche in Italia esiste già un’ampia giurisprudenza sullo “staccare la spina”. Colpisce semmai che i giudici inglesi si siano sostituiti ai genitori nella decisione, ma come ha osservato l’Alta Corte britannica “i diritti dei genitori non sono assoluti” e l’interesse del bambino deve sempre essere il criterio dominante. Viene effettivamente da chiedersi: possono due genitori decidere di prolungare una sofferenza senza speranze? E, se sì, esiste un confine alla potestà genitoriale, ad esempio nel caso in cui i genitori si oppongano alle trasfusioni per motivi religiosi oppure ai vaccini? Il giudice che decide sulla vita o la morte ha una responsabilità spaventosa e suscita infinite perplessità, ma l’alternativa quale sarebbe?
Va aggiunto che anche gli ospedali italiani avevano riconosciuto che per il piccolo Alfie non c’erano speranze, per cui si sarebbero limitati al mantenimento in vita tramite macchinari e a cure palliative. La differenza con l’accanimento terapeutico è sottile e la stessa Chiesa cattolica, nel Catechismo, riconosce che può essere legittima l’interruzione di cure mediche straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati che si possono raggiungere.
In questa vicenda, assai complessa e sulla quale è difficile poter dire una parola definitiva, se ne inserisce un’altra, certamente secondaria: la concessione della cittadinanza italiana al piccolo Alfie, finalizzata - nelle intenzioni - a legittimare l’Italia a intervenire come parte in causa.
Questa è stata una scelta che non ha portato frutti e non ha modificato la decisione di staccare Alfie dai macchinari. Forse, si è rivelata addirittura controproducente: non solo non è servita a ritagliare all’Italia un ruolo nella vicenda (anche perché il bimbo ha mantenuto la cittadinanza britannica), ma ha creato una seppur minima crisi diplomatica. Questa manovra, che, da una parte, relegava gli inglesi (autorità, medici, giudici) nel ruolo di coloro che erano determinati nel voler sopprimere la vita di un bimbo e, dall’altra, gli italiani nel ruolo di salvatori aveva zero speranze di successo, come era facile prevedere.
Per fare un paragone ardito, non è che se concedessimo la cittadinanza ai condannati a morte negli Stati Uniti li salveremmo dalla pena capitale. Compiremmo un gesto simbolico e di alto valore umanitario, ma niente di più. Certe scelte finiscono per irrigidire le posizioni e rendere più difficile il dialogo. Nei rapporti internazionali è sempre prudente valutare prima le probabilità di successo e porre attenzione a non compiere azioni che, seppur condivisibili negli obiettivi, possono sortire effetti contrari a quelli desiderati. Non a caso la posizione del Vaticano è apparsa più prudente di quella italiana e i vescovi cattolici hanno riconosciuto la professionalità dei medici dell’Alder Hey Children’s Hospital in cui era ricoverato Alfie.
Aggiornato il 30 aprile 2018 alle ore 16:13