Referendum, Amato non convince

lunedì 21 febbraio 2022


È un peccato che non sia stato riconosciuto al popolo italiano la possibilità di esprimersi in tema di responsabilità civile dei magistrati, quello stesso popolo per il quale la funzione giurisdizionale (seppure questo termine è, oramai, nello slang comune, soppiantato da quello dominante di “potere giudiziario”) può essere legittimamente esercitata, così come si legge e si proclama solennemente nelle aule di giustizia. La spiegazione che viene, prime cure, fornita dal presidente della Consulta, Giuliano Amato, attraverso i mass-media, francamente non sembra convincente e, anzi, pare capace di rafforzare quel convincimento, progressivo, che sembra stia divenendo dominante nell’opinione pubblica, richiamando i continui moniti dell’indimenticato Marco Pannella, che nel corpo dello Stato si siano ormai insidiati e assediano speciali famiglie di una aristocrazia che non lo fu per nascita, la cui l’azione, la quale produce immediati effetti su tutta la collettività e sulle sue espressioni di funzionamento anche istituzionale, goda di irresponsabilità, mentre per la generalità degli altri “public servant”, che pure svolgano importanti funzioni, tale guarentigia non abbia diritto di cittadinanza.

Orbene, il problema non è che quest’ultimi ne siano esclusi, ma che tale condizione, di necessaria rendicontazione di quel che si fa, dovrebbe riguardare tutti i player delle istituzioni pubbliche, nessuno escluso, dal presidente della Repubblica al più umile e prezioso fantaccino, ove ancora ci fosse il servizio di leva. La campagna referendaria, tra l’altro, avrebbe avuto il pregio di consentire lo svilupparsi di una dialettica civile, ove le diverse posizioni, attraverso dibattici pubblici, si sarebbero potute confrontare, favorendo anche una crescita di consapevolezza della cittadinanza sulla delicatezza di un tema che, ove non trattato apertamente e con rigore morale, rischia al contrario di radicalizzare quel sentiment di sfiducia crescente proprio verso la stessa magistratura, la quale non può assolutamente, oggi, vantare una purezza “a prescindere”, né ostentare uno specismo d’intoccabilità, perché essendo anch’essa costituita da donne e uomini con tutti i pregi e i difetti tipici della natura umana, ha bisogno, come ogni altra espressione del vivere organizzato di natura pubblicistica, di continue verifiche, messe a punto, regolamentazioni, impiego di pesi e contrappesi, affinché la Giustizia sia percepita, anche dal più semplice ed dimesso dei cittadini, come “giusta”.

In fondo, tutto l’impianto costituzionale sembrerebbe esigerlo, ove si convenga sul primato della legalità che si imporrebbe sulla generalità dei cittadini, nessuno escluso, dando in tal modo senso ad uno Stato che sia per davvero democratico e liberale. Il principio che chi sbaglia debba risponderne, tra l’altro, è talmente così innervato nella storia dell’uomo che il non ammetterlo significa quasi come il voler andare contro natura, talché la spiegazione di questa anomalia, ove non venga percepita chiaramente dalla collettività, rischia di essere tradotta se non in un sottile sopruso, in un vero vulnus democratico in termini di terzietà, trasparenza ed indipendenza, accelerando forme di sfiducia e di malcontento, con riflessi rilevanti persino sulla tenuta di tutte le istituzioni, perché uno è e rimane lo Stato.

Pure è vero che, al contrario, potrebbe accelerare quella spinta riformatrice, spesso tacitata da quanti, dopotutto, preferiscono l’ambiguità piuttosto che favorire il diritto alla conoscenza e la crescita civica dell’elettorato, il quale, sulla spinta di una progredente indignazione, troverebbe un maggior ascolto a prescindere; ma proprio per evitare il rischio di una radicalizzazione, quasi da stadio, su tali temi, non avere consentito al popolo di sapere, attraverso un chiaro confronto tra le parti, pro o contro tale giustiziato quesito referendario, risulterà un’occasione perduta di maturità collettiva e di pedagogia istituzionale, col rischio di lasciare sul terreno strascichi di malcontento, soprattutto tra quanti vedano in tanto il venir meno del “principio dei principi” di ogni democrazia che sia tale: quello della effettiva divisione dei poteri e delle relative funzioni, in una visione paritetica d’importanza e non della prevalenza di uno sugli altri.

Staremo a vedere.

(*) Penitenziarista

Former dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria

Presidente onorario del Cesp (Centro europeo di studi penitenziari) di Roma

Componente dell’Osservatorio regionale antimafia del Friuli Venezia Giulia


di Enrico Sbriglia (*)