
L’Unione europea (Ue) dimostra continuamente delle profonde carenze nella gestione del “non fenomeno” migratorio. Il fatto che una modalità per affrontare questa sempre più complessa problematica sia stata trovata attraverso l’istituzione di partenariati generici con i Paesi africani da dove ha origine la migrazione, e dove i diritti umani sono un tema sconosciuto, solleva una ulteriore perplessità, anche a causa dell’enorme impegno economico a carico dei “cittadini” europei.
Ma come si manifesta in realtà questa “esternalizzazione” dei servizi di controllo migratorio oltre i confini europei e, forse, oltre le teoriche competenze di Frontex, Agenzia europea per il controllo dei confini? Intanto possiamo rispondere affermando che ufficialmente Frontex, per il 2023, gestisce un bilancio di 845 milioni di euro, un record di disponibilità, collocandosi nel “calderone” europeo come l’agenzia più “economicamente in forma” di tutta l’Unione. Tuttavia, negli ultimi anni è stata oggetto di svariate indagini effettuate da varie istituzioni, come le Nazioni Unite ma anche organizzazioni “filantropiche”, da privati, da giornalisti e da parte di deputati europei, dove è emerso, senza sorprese, che Frontex era andata, in molti casi, abbondantemente oltre la linea dell’etica europea. Infatti, da queste indagini risulta che più volte ha violato i principi che “tratteggiano” i diritti e la sicurezza dei migranti, generalizzando il “profilo” di questi esuli che, ovviamente, non possono essere tutti inquadrati nella stessa categoria di migranti economici.
Sempre da queste indagini, emerge una cooperazione anche con la Guardia costiera libica, finanziata tramite fondi europei, che ha permesso il rimpatrio di molte migliaia di migranti verso i Paesi di provenienza. Eppure, nella fase transitoria in Libia è nota l’esistenza di uno strutturato sistema di sfruttamento umano, che va dal business della prostituzione a quello della schiavizzazione generica di questi africani provenienti soprattutto dall’area occidentale sub sahariana. Un giro di affari basato sullo sfruttamento sessuale di queste giovani donne e sulla schiavizzazione di uomini e donne che, non casualmente, non appartengono a quelli che sbarcano in Italia con abbigliamento di marca falsificato, con smartphone di ultima generazione e che ostentano sorridenti la “V” di vittoria con le dita della mano.
In una recente indagine effettuata da dei deputati europei in un’area africana dove opera Frontex, è venuto alla luce anche un altro preoccupante aspetto di questa esternalizzazione del controllo dei “confini europei” in Africa, cioè il caso del confine tra la Mauritania ed il Senegal, punto focale del flusso migratorio dall’Africa sub sahariana verso le sponde mediterranee. Qui esiste il posto di frontiera Rosso-Senegal e Rosso-Mauritania, due città omonime costruite sulle sponde del fiume Senegal che separa i due Paesi. Nelle due cittadine sono stati organizzati distaccamenti della Dnlt, la Divisione nazionale per la lotta al traffico di migranti, frutto di un partenariato operativo congiunto dei due Stati con l’Ue, nato con lo scopo di formare ed equipaggiare la polizia di frontiera dei due Paesi delegata al blocco dei migranti diretti verso il Mediterraneo.
In particolare, con i soldi dei cittadini europei negli ultimi cinque anni il Senegal ha organizzato una decina di posti di frontiera e quattro distaccamenti regionali della Dnlt. Quello che colpisce, stando alle recenti relazioni prodotte dai deputati europei in visita in questi siti, è l’elevatissimo livello tecnologico dei sistemi di sorveglianza intrusiva di cui sono dotati questi punti di frontiera (strumenti acquistati con soldi europei). Parliamo di droni, server digitali, occhiali per la visione notturna, software per l’identificazione biometrica delle impronte digitali, riconoscimento facciale e altra tecnologia di controllo di elevatissima efficacia.
Tra questi strumenti di controllo c’è l’Ufed, Universal Forensics Extraction Device, un sistema intrusivo di estrazione dati che può recuperare foto, messaggi WhatsApp, cronologie chiamate, posizioni Gps da qualsiasi smartphone. È uno strumento costruito dalla Cellebrite, un’azienda israeliana specializzata in sistemi di controllo che vende l’Ufed non solo al Senegal, ma anche alle forze dell’ordine di tutto il mondo, tra cui l’Fbi. Un sistema eccellente per combattere il traffico di droga e il terrorismo in generale. Ma tale strumento, nell’articolato e “frizzante” sistema politico afro-arabo, è servito a molti Stati per scrutare i dati di giornalisti, dissidenti politici e attivisti per i diritti umani, come accaduto di recente in Bahrein e in Nigeria.
Però nel punto di frontiera Rosso-Mauritania-Senegal l’uso di questa tecnologia, acquistata con fondi europei, nata per combattere i trafficanti di droga e il terrorismo, è destinata a esercitare un controllo su ogni tipo di dinamica umana, come quella relativa agli spostamenti dei migranti del Sahara occidentale verso Europa. Così l’Ufed è uno degli strumenti dell’inquietante arsenale di tecnologie ultramoderne utilizzate per controllare i movimenti nella regione, una strumentazione giunta sulle sponde del fiume Senegal grazie ai tecnocrati dell’Unione europea. Ricordo che la Commissione europea dal 2022 ha avviato negoziati con Mauritania e Senegal per avere l’autorizzazione a inviare personale Frontex per il pattugliamento dei confini terrestri e marittimi dei due Paesi, con l’obiettivo di bloccare l’immigrazione africana: una sorta di “militarizzazione europea” dell’area.
Inoltre, faccio presente che a oggi sono almeno 27 i Paesi africani dove i denari dei contribuenti europei sono spesi per frenare le ondate migratorie, divisi in circa quattrocento progetti distinti. In sei anni, fino al 2021, l’Ue ha investito almeno cinque miliardi di euro in questi progetti. Investimenti ad alto rischio, dove l’Ue non riesce a controllare come siano spesi. E dove la Commissione europea – spesso – non è in grado di sviluppare i relativi studi di valutazione sulla distribuzione dei fondi e sull’impatto sui diritti umani.
La realtà, anche secondo le analisi delle deputate europee Cornelia Ernst e Tineke Strik, autrici dell’indagine, è che con queste pseudo-misure l’Ue stia conducendo pericolosi esperimenti tecnico-politici, in quanto fornisce denaro a sistemi autoritari che non prevedono atteggiamenti democratici. E che utilizzano queste risorse per l’acquisto di tecnologia di controllo intrusivo e repressivo, adoperati contro tutti i migranti e contro ogni forma di dissenso. Quindi, denaro europeo destinato – in teoria – a fronteggiare le dinamiche migratorie ma che, invece, serve più a esercitare repressioni umane, in generale e politiche, in particolare.
Aggiornato il 11 settembre 2023 alle ore 10:35