Salviamo la letteratura (e gli studenti) dai critici letterari

martedì 25 maggio 2021


Circa quindici anni or sono Tzvetan Todorov, docente di Letteratura per decenni alla Sorbona, in un saggio dal significativo titolo “La letteratura in pericolo”, metteva in guardia dal grave rischio che i critici letterari – spesso docenti universitari – cercassero di trasmettere agli attoniti studenti una assoluta falsità loro dettata dall’asservimento ideologico: e cioè che le opere letterarie non hanno alcun collegamento con il mondo, con la realtà, rappresentando invece ciascuna un sistema chiuso e autosufficiente. E che perciò studiarle comporta soltanto l’esame delle parti e degli elementi che le compongono nei loro reciproci rapporti.

Da qui poi deriva l’idea – parimenti falsa – che studiare la letteratura serva principalmente a divenire critici letterari e non, invece, esseri umani dotati della capacità di vivere nel mondo, di comprenderlo, orientandosi nelle relazioni con gli altri. Questi ammonimenti suonavano allora profetici e oggi se ne ha la prova oggettiva. Basti constatare, per esempio, che il critico Alberto Casadei – peraltro ordinario di Letteratura italiana presso l’Università di Pisa – ha pensato bene di scrivere, nel 2017, un libro dal titolo che è tutto un programma, “Biologia della letteratura: corpo, stile, storia”. Ora, se questo titolo vuole soltanto – ma ne dubito – sottolineare come la creazione letteraria sia influenzata dalla persona dell’autore fin dalla sua componente biologica, allora si tratta di una ovvietà. È infatti lapalissiano che ciascuno di noi adotta, necessariamente, la prospettiva che gli appartiene e da cui prendere le mosse – non esclusa la componente biologica del corpo – anche nell’esame e nella creazione dei testi letterari.

Mi piace qui però ricordare come per definire il “corpo”, la lingua tedesca usi due termini diversi: “Korper”, per il corpo quale oggetto fra gli oggetti del mondo e “Leib”, per il corpo dotato di umanità, veicolo insomma dello spirito. Immalinconisce allora che qui la biologia sia intesa nel primo senso e non nel secondo. Ma quel titolo, come si vedrà subito, vuol significare in realtà ben altro: e cioè che, seguendo le indicazioni delle neuroscienze, oggi ormai novellate quali il nuovo Vangelo laico, il substrato umano biologicamente inteso è capace di indirizzare perfino lo stile letterario dell’autore, rendendolo capace di assurgere al livello del Canone, vale a dire stabilizzando il testo quale classico, a partire dai nuclei di senso rinvenibili già in “stringhe” narrative che possono ben fare a meno della unitarietà di tutta l’opera.

Tuttavia, non intendo qui discutere questi temi, quanto invece fermare brevemente l’attenzione sulla recensione che a questo volume ha dedicato Lorenzo Marchese, anch’egli critico letterario e docente presso l’Università dell’Aquila, su una nota rivista letteraria (tutti i testi qui indicati sono facilmente reperibili in rete). Leggendo la critica, infatti, si capisce molto non solo dell’opera commentata, ma anche del rapporto fra recensore e recensito e perciò, in definitiva, del tipo di relazione intellettuale fra critici letterari e fra questi e il loro lavoro.

Dico subito che si tratta della messa in opera di una attività rischiosissima per la letteratura, per il semplice motivo che costoro non scrivono per gli altri, per tutti gli altri, ma soltanto per se stessi, vale a dire per una ristretta cerchia di addetti ai lavori, i quali tutti indistintamente usano di un linguaggio volutamente criptico, allusivo, denso di non-detto e perciò oscuro, involuto, faticosissimo da decodificare, destinato con tutta evidenza a perpetuare quella dimensione necessariamente arcana – gli “Arcana Imperii” di Ernst Kantorowicz –  dalla quale essi si sentono come protetti o valorizzati socialmente in sapienza e cultura. Non posso tacere, insomma, tutta la mia preoccupazione per le sorti di una letteratura divenuta ormai terreno privilegiato di scontro e di incontro per studiosi che, in realtà, invece di pensare alla comprensione della pagina letteraria, pensano soltanto a comunicare fra di loro attraverso rarefatti usi linguistici interdetti ai comuni mortali.

Eccone un esempio tratto dal libro recensito, ma molti altri se ne potrebbero addurre: “La stilizzazione di nuclei di senso favorisce una fruizione continuamente arricchita, anche di singole parti o frammenti dell’opera, e a consentire a superare i limiti geo-culturali, assegnando in particolare agli attuali classici globalizzati uno sta-tuto di icona trasmissibile in ogni contesto, addirittura indipendentemente dalla conoscenza dell’opera nella totalità delle sue caratteristiche originarie, ma senza una riduzione a puro simulacro” (pagina 168).

Orbene, chi scrive in questo modo, pensa in questo modo e, in definitiva, non pensa. Pensare, infatti, e in particolare pensare la letteratura, postula due elementi preliminari che invece qui sembrano assenti, sia nel recensito che nel recensore. Da un lato, occorre aver ben presenti i testi da comprendere e criticare e occorre averli presenti nel loro significato estetico, umano, filosofico, sociale, morale, politico e perfino giuridico. Da qui l’interesse dei giuristi per la letteratura, nel senso proprio del termine messo in luce da Vittorio Mathieu, poiché il loro porsi è un “inter- esse”, cioè uno “stare in mezzo” alle cose letterarie, alle pagine che raccontano il mondo.

Da questo punto di vista, siamo tenuti a presupporre che questi critici conoscano i testi, anche se a volte viene il dubbio che se li siano persi per via, prestando troppa attenzione alle “stringhe” narrative, a scapito del complesso dell’opera, rischiando così che i particolari occultino la sua interezza (“il vero è l’intero”, diceva qualcuno) e in definitiva il suo senso (il senso non si lascia spezzettare). Ma è soprattutto a tutela degli studenti che questi docenti dovrebbero raccomandare il ritorno ai testi degli autori, troppo spesso dimenticati per far posto ai loro critici, il che è come guardare il dito che indica la luna e non la luna.

In proposito, già tre decenni or sono, George Steiner stigmatizzava come molti studenti di Cambridge discutessero le opinioni di Thomas Stearns Eliot su Dante, ma senza aver mai letto un solo verso del sommo poeta. Da un altro lato, occorre che di ogni opera letteraria si colga il significato in via interpretativa, con quel tanto di sensibilità ermeneutica che appare necessaria per intendere cosa essa voglia dire a noi a proposito del mondo in cui viviamo, qui ed ora. E invece, sembra che la realtà del mondo in cui tutti (anche i critici letterari) viviamo non sia di interesse per costoro, preoccupati soltanto di mantenere una loro conclusa autoreferenzialità, come lasciapassare accademico garantito e come indice di superiorità culturale da esibire socialmente quando occorra.

Sicché, la letteratura non soltanto è oggi in pericolo, come ammoniva Todorov, ma appare ormai gravemente vulnerata, forse agonizzante, dal momento che i critici si parlano addosso, usando un lessico astruso ed aborrendo ogni semplicità discorsiva (dimenticando così che l’attributo più autentico che la teologia riserva a Dio è “il Semplice”) e sospingendo gli studenti ad evitare accuratamente ogni contaminazione fra la pagina letteraria e la vita.

E dunque – per un verso – i critici, incapaci di partorire un’idea, si limitano ad astruse escogitazioni liberatorie (perché li liberano dalla fatica del pensiero), come quella della biologia incidente sullo stile letterario: ma questi hanno mai letto e meditato le pagine di Hans-Georg Gadamer o di Luigi Pareyson? Non pretendo certo che costoro scommettano – come voleva ancora Steiner – su Dio, quale postulato di ogni significazione estetica sul mondo, ma che almeno al mondo riservino una qualche attenzione, uno sguardo, sia pur distratto, alla sublime ed inquietante oggettività delle cose.

Gli studenti, per altro verso, vanno invece tutelati dai loro docenti-critici, invitandoli a preferire alla escogitazione critica di taglio biologico – e ad altre simili amenità – la bellezza del verso e della autentica narrazione, capaci, questi sì, di cambiare davvero la vita di chi li scopra, al pari di quanto possa fare un incontro imprevisto, all’angolo della strada, con un amico dimenticato o con un mortale nemico. Comincino gli studenti a chiedersi semplicemente (si fa per dire!), anche se si tratta di domande forse ritenute insulse dai loro docenti: chi è Ivan Karamazov? Chi è Riccardo III? Chi è Antigone? E poi ne riparliamo.


di Vincenzo Vitale