L’importanza di chiamarsi Enrico

L’approdo di Enrico Letta al Nazareno sembra che porti bene al Partito Democratico. Stando al sondaggio sulle intenzioni di voto, realizzato da Swg per il Tg de “La 7” di Enrico Mentana, l’elezione alla segreteria dell’allievo favoloso di Beniamino Andreatta ha recato in dono al partito un +0,8 in percentuale di consensi. Basterà a fermare l’emorragia di elettori, in atto dalla nascita del Governo di Mario Draghi e, ancor più, dalla decisione di Giuseppe Conte di porsi alla guida del Movimento Cinque Stelle, rinunciando al ruolo di federatore super partes del ricostituendo centrosinistra allargato ai grillini?

Non è con quei centesimi di gradimento che il Pd uscirà dalla crisi profonda in cui è precipitato. Servono, tuttavia, a offrire un gancio ai pessimisti della ragione a cui appendere, in mancanza d’altro supporto, l’ottimismo della volontà. Se sta bene a loro, quelli del popolo della sinistra, perché disilluderli? In fondo, anche Giuseppe Ungaretti vedeva qualcosa di allegro nella tragedia di un naufragio. Ma avanziamo un sospetto: non è che quella impercettibile inversione di trend sia un’illusione ottica? Una pulsione esclusivamente umorale scatenata dal ritorno in campo del novello Edmond Dantès (il Conte di Montecristo del romanzo di Alexandre Dumas)? Se così fosse, per il Pd la presa di beneficio nei sondaggi sarebbe del tipo di quello che nella lingua del trade, che si parla a Wall Street e nelle Borse di tutto il mondo, viene definito il rimbalzo del gatto morto. Tecnicamente, un’espressione idiomatica che indica la temporanea risalita di valore di un titolo finanziario in una fase prolungata di mercato discendente a cui fa seguito la ripresa del declino. Non vi sembra la foto di famiglia del carrozzone “dem”? E perché Letta dovrebbe riuscire da solo a riscrivere la trama di una storia declinante? Che il novello Dantès possa essere un’opportunità per la soluzione dei problemi interni è comprensibile che lo pensino dalle parti della sinistra, ma a voler essere oggettivi il vecchio “giovane” politico si è mostrato subito inattuale, nella forma e nel merito.

Si è presentato all’Assemblea nazionale del partito che lo ha eletto segretario con lo sguardo rivolto all’indietro. D’accordo per la battuta a effetto, ma quell’avvertire il peso di chiamarsi Enrico, che renderebbe più impegnativo il compito di guidare il partito, con evidente riferimento a un altro Enrico (Berlinguer), un gigante del comunismo occidentale dello scorso secolo, è l’operazione “nostalgia”, il Come eravamo che fa a pugni con la necessità di ripensare l’identità, le ragioni ideali e i ruoli del socialismo nel mondo globalizzato. La sinistra del Terzo millennio è chiamata a misurarsi sulle opportunità e sulle insidie dell’intelligenza artificiale, come i comunisti dello scorso secolo si misuravano con le strategie della lotta di classe. E poi, quella borraccia rossa con la scritta “Bella ciao” lasciata in bella mostra sul leggio. Siamo ancora a questo? Con un Paese in guerra contro il Covid e con le sue devastanti conseguenze economiche e sociali, con un mondo della produzione che promette di bruciare nei prossimi venti anni molti dei lavori e dei profili professionali oggi conosciuti per sostituirli (in parte) con nuove skill e nuove tecnologie, sconosciute a gran parte dell’odierna forza-lavoro, Enrico Letta ammicca al frusto luogo comune dell’antifascismo.

Se il subliminale è una minestra riscaldata, non è che il progetto politico messo in chiaro sia uno sballo. La ricetta che propone al suo popolo per ripartire ha due ingredienti: lo ius soli e il voto ai sedicenni. Si vede che l’ex enfant prodige sia vissuto lontano dall’Italia per molto tempo, forse troppo. Davvero Letta pensa di riconquistare la fiducia della maggioranza degli italiani puntando su queste battaglie? Ha ragione Giovanni Orsina che su “La Stampa ha sentenziato: “A giudicare dal discorso che Enrico Letta ha pronunciato, Matteo Salvini e Giorgia Meloni possono dormire sonni tranquilli”. La rotta tracciata dal neo-segretario “dem” va verso il ripescaggio di una sinistra vintage che, in assenza di risposte convincenti alle istanze economiche delle nuove classi lavoratrici e del ceto medio produttivo, si rifugia nella riserva indiana dei diritti sociali allargati. L’intento è da “abc” della politica politicante: ribaltare la condizione di forza minoritaria nel Paese, contando sul consenso degli adolescenti e degli immigrati ai quali verrà concessa la cittadinanza.

Marco Follini, democristiano di lungo corso, lo ha descritto come un misto di Beniamino Andreatta, Giulio Andreotti e Gianni Letta, lo zio. Ora, non è credibile che proprio lui pensi che la mission impossible di risalita nel consenso degli italiani possa essere affidata alla battaglia su due temi che i dirigenti comunisti di un tempo avrebbero definito velleitari. Verosimilmente, averli indicati è servito a delimitare il perimetro del campo nel quale intende muoversi, che è il progressismo multiculturalista con accenti pacifisti e terzomondisti. Se così fosse, sarebbe un gran bene perché vorrebbe dire che nella previsione lettiana c’è il ritorno alla logica delle coalizioni contrapposte: da una parte la sinistra, dall’altra la destra. Ciò manderebbe definitivamente in archivio le infatuazioni proporzionaliste di cui il partito zingarettiano è stato preda nel tentativo autolesionista di inseguire l’alleanza organica con i Cinque Stelle.

Letta è l’uomo dell’Ulivo prodiano. È presumibile che i suoi prossimi passi da segretario andranno nel senso di aprire il dialogo con tutte le forze della galassia del centrosinistra, per giungere alla composizione di un fronte largo progressista di matrice cattocomunista, animato da un afflato ecumenico che “passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa passando da Malcolm X attraverso Gandhi e San Patrignano” (per dirla sulle note di “Penso positivo” di Jovanotti), che sfidi quello liberal-conservatore della destra.

In questa cornice rivisitata della vocazione maggioritaria del Partito Democratico, ci sta che Letta si sia dichiarato favorevole a un ritorno del “Mattarellum” in sostituzione della vigente legge elettorale. La destra plurale dovrebbe favorire la possibile svolta, non fosse altro per il fatto che si eviterebbe di finire nell’abisso dell’ingovernabilità permanente a cui una legge elettorale di tipo proporzionale inevitabilmente condannerebbe il Paese. Al momento per Letta è stato facile parlarne a un partito in stato confusionale, annichilito all’idea di dover rinunciare alla presa sul potere che tiene stretto da almeno dieci anni pur non avendo ricevuto il mandato in tal senso dalla maggioranza degli italiani. Il problema più grosso sarà convincere i potenziali alleati. A partire dai Cinque Stelle, che dall’avvento di Mario Draghi non battono chiodo. Con un Movimento sull’orlo di una crisi di nervi da scissione, con un Davide Casaleggio che ha varato le navi per traghettare verso nuovi lidi della politica una ristretta pattuglia di fedelissimi, è pensabile che Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Beppe Grillo si dicano disponibili a buttare alle ortiche la riforma in senso proporzionale del sistema elettorale e con essa l’ultima bandiera della specificità grillina, fondata sul principio inderogabile di non apparentarsi con alcun partito politico in forma permanente e non congiunturale?

Ma sarà dura anche per la stessa basedem” accettare che, in nome del bene supremo della coalizione, nei collegi uninominali si debbano votare candidati renziani, calendiani (è così che si chiamano i sodali di Carlo Calenda?) e della premiata ditta Roberto Speranza-Pier Luigi Bersani-Massimo D’Alema? Intanto, l’ultimo (in ordine di tempo) uomo della Provvidenza democratica ha ricevuto la benedizione di Walter Veltroni e di Romano Prodi. Non sarà perché nell’aria si avverte profumo di Quirinale?

Aggiornato il 17 marzo 2021 alle ore 09:57