martedì 16 marzo 2021
Il Covid non altera la realtà. Non l’amplifica, non la riduce. E le storie che racconta non hanno lo stesso colore. Sono di dolore, ma anche di speranza; di disperazione ma anche di resistenza; alcune sono eroiche e nobili, altre torbide e meschine. La pandemia può cambiare il corso della storia o l’andamento dei grandi sistemi economici e sociali, ma non può mutare la natura profonda dell’essere umano, a meno che non scelga lui di cambiare. Che decida in piena libertà di essere migliore o peggiore.
Vi domanderete del perché di tale premessa. Il motivo è presto detto. Chi pratica professionalmente l’attività giornalistica si trova a fare le pulci al prossimo, a raccontare storie sgradevoli, a stanare le insidie che la quotidianità nasconde. Ve ne sono alcuni che non si accontentano di essere narratori di fatti ma si fanno giudici e carnefici. Ora, è accaduto che la scorsa settimana sia scoppiata una polemica sulle pressioni fatte dall’Ordine dei giornalisti per assicurare ai propri iscritti la precedenza nel calendario delle vaccinazioni stabilito dalle autorità competenti. Qualche autorevole anchorman ha gridato allo scandalo. Enrico Mentana ha tuonato – via Twitter – per la vergogna colata sulla categoria. Il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Verna, ha replicato puntuto: “Abbiamo solo il dovere di rappresentare le situazioni. Se si tengono in considerazione le categorie io ho il dovere di rappresentare i rischi a cui sono esposti i colleghi. Nessuno di quelli che sono obbligati a fare a un lavoro dovrebbero essere messi nelle condizioni di rischiare”.
Chi ha ragione? A nostro avviso, nessuno dei due ed entrambi. Sbaglia il direttore del Tg de “La 7” a metterla sul piano della condanna morale. Troppo comodo fare l’indignato sulla questione dell’ordine di precedenza per le vaccinazioni quando vi sarebbe da mettere sotto processo un sistema dell’informazione che si nutre di lottizzazione degli incarichi e di privilegi castali. Ma sbaglia anche il presidente Verna, quando la mette sul piano della difesa di una categoria mandata in prima linea a combattere il nemico invisibile. Uno studio del Servizio economico-statistico dell’Agcom, al 30 settembre 2016, censiva 112.397 soggetti iscritti all’Ordine dei giornalisti (Odg) e di questi 59.017 all’Istituto previdenziale di riferimento (Inpgi). Vogliamo sostenere che siano tutti in strada a fare il loro lavoro, rischiando il contagio? Solo un’infinitesima parte è davvero da considerare a rischio, per tutti gli altri sarebbe soltanto un privilegio.
Mentana fa bene a stigmatizzare il comportamento di quelli che non ne hanno diritto, ma ha ugualmente ragione Verna nel porre la questione della protezione vaccinale a chi rischia per fare informazione. Come uscirne se nella tela delle regole si è prodotta una falla? Quando occorre, leggi e regolamenti possono essere abrogati, riformati o emendati. Non basta affidarsi alla coscienza individuale. Non basta a noi, perché non si può essere liberali a corrente alterna. Se da liberali pensiamo che sia sacrosanto rispettare la libertà dell’individuo di fare tutto ciò che desideri che non sia vietato dalla legge, non possiamo indignarci in presenza dell’immancabile egoista che pensa ai fatti suoi e di valore etico e di bene comune se ne infischia. Sia la norma a fissare i criteri dell’ordine vaccinale per gli appartenenti alla categoria dei giornalisti. E si dia un taglio con le espressioni roboanti del tipo “mi indigno, mi vergogno”, che non servono a nulla se non a fare scena.
Chiediamoci, piuttosto, a cosa serva a chi scrive per i giornali o lavora nei media avere un Ordine professionale? Il problema non è solo dei giornalisti. Coinvolge avvocati, notai, agronomi, assistenti sociali, medici, ingegneri, geometri, commercialisti, farmacisti, consulenti del lavoro, attuari (esiste anche un Ordine degli attuari), solo per citarne alcuni. In Italia sono attivi 26 Ordini e collegi professionali riconosciuti. A questi si aggiungano strutture di rappresentanza di categorie professionali: magistrati, docenti universitari, ecclesiastici, personale di alto grado della Pubblica amministrazione, politici, grand commis di Stato. Chiamatele caste, lobby, gruppi di pressione, essi esistono e sono luoghi di potere reale che competono con quello che le leggi assegnano alle istituzioni pubbliche. È lo Stato profondo, che gli anglosassoni chiamano “Deep State”, rimasto immutato dall’Unità d’Italia ad oggi nella sua natura intrinsecamente corporativa. Nel nostro Paese le forme di Stato e di governo si sono succedute nei secoli innestandosi di volta in volta su un corpo solido che non ha mai abiurato la sua natura corporativa.
Lo Stato, che per definizione dovrebbe ottemperare all’interesse generale, ha pagato il prezzo di una forzata convivenza con il corporativismo ben oltre la parentesi del Ventennio fascista, che l’aveva posto al centro della sua dottrina giuridico-politica. Non fatevi trarre in inganno dalla narrazione leggendaria delle corporazioni medievali dei costruttori delle cattedrali: sono altra cosa. Il corporativismo al quale ci riferiamo si fonda sul privilegio di status e sul monopolio di mestieri e professioni, vigilato da organizzazioni chiuse ed esclusivistiche impegnate in perenne lotta con l’economia di mercato e con il principio della libera concorrenza. Il refrain in voga in questo tempo storico è che il nostro Paese sia bloccato a causa della burocrazia asfissiante. Ma cos’è burocrazia? L’agire autocratico degli apparati della Pubblica amministrazione? E la responsabilità dell’immobilismo è esclusivamente loro? Se l’Italia vorrà fare un balzo nella contemporaneità dovrà mettere all’ordine del giorno un discorso serio e approfondito sul ruolo e sul peso specifico nella dinamica democratica di alcuni corpi intermedi.
Bisognerà rileggere le pagine che Giovanni Paolo II dedicò all’argomento nell’enciclica Laborem exercens (1981) riguardo ai rischi insiti nel diritto ad associarsi che può involvere in egoismi di gruppo o di classe, in abuso dei gruppi dominanti contro le legittime istanze del bene comune. C’è tutto questo dietro la pretesa delle corporazioni, apparentemente innocua, di ignorare la fila della giustizia sociale e della solidarietà intracomunitaria e di passare avanti, sfruttando la corsia preferenziale. Da nemici giurati dell’egualitarismo diciamo che l’Italia non andrà da nessuna parte, fintantoché il sano principio della piramide sociale sarà corrotto dal privilegio estorto in ragione di un’appartenenza corporativa e dall’egoismo castale. Saltare la fila per la vaccinazione significa togliere il diritto a un altro di essere messo prima in sicurezza. Ciò comporterà il rischio di essere infettati? È una possibilità, fa parte del gioco. Una vita può finire o può essere mutilata, non per questo perde la sua qualità. Se invece prevale la furbizia, si potrà anche farla franca con il virus ma del senso che la vita custodisce rendendola degna di essere vissuta non resterà più niente.
di Cristofaro Sola