
Luca Palamara anche a “Porta a Porta”: ed è normale, perfino doveroso, dal punto di vista mediatico. E anche qui ovviamente alcune sue affermazioni vanno commentate, perché fanno intendere meglio di un trattato come funzionavano e purtroppo continuano a funzionare le cose in Italia, sia circa il ruolo del Consiglio superiore della magistratura, sia in relazione all’amministrazione della giustizia.
Due sono degne di nota.
Innanzitutto, Palamara, per rispondere a Bruno Vespa che gli chiedeva se intendesse dimettersi, ha dichiarato di amare la magistratura.
Benissimo. Ora, dal momento che non conosco nessuna ragazza che porti questo nome e che sia meritevole di questo amore, sbalordisco. Chi sarà mai questa magistratura? E sarà graziosa? Giovane? Di buon carattere? Non si sa. E non si sa semplicemente perché non esiste. Ovviamente.
Eppure, Palamara l’ama di un amore talmente intenso da dichiararlo pubblicamente davanti a milioni di telespettatori. Per rispondere ad altre domande, Palamara ha poi precisato che la sua attività di capocorrente e di presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati si è svolta sempre al servizio dei suoi colleghi magistrati.
Questa seconda risposta ci aiuta a capire anche il senso della prima. E il senso è la più assoluta, cieca, incontestabile autoreferenzialità dei magistrati associati. In questa prospettiva – la sola desumibile – Palamara confessa candidamente e con l’aria del bambino che, accusato di aver rubato la marmellata, ha trovato l’argomento giusto per scusarsi, di aver sempre destinato la propria attività a beneficio degli altri magistrati e – va aggiunto – della magistratura nel suo complesso, quella da lui tanto amata, da intendere come l’insieme, il coacervo degli interessi di tutta la categoria.
La cosa sorprendente non è soltanto il candore con cui Palamara adopera questa giustificazione senza neppure accorgersi che in realtà si tratta di una confessione in piena regola di un misfatto continuato nel tempo, ma anche la circostanza che nessuno di coloro che erano collegati con lo studio televisivo abbia avuto nulla da eccepire o da osservare sul punto specifico.
Né Palamara né altri, insomma, hanno pensato per un momento che uno come Palamara, magistrato, componente del Csm, presidente dell’Anm potesse o dovesse, magari per sbaglio, svolgere il proprio ruolo non nell’interesse della corporazione o dei singoli magistrati, quelli più vicini nella corrente o quelli di altre correnti a condizioni di reciprocità, ma nell’interesse di coloro che sembrano e sono i grandi assenti da tutte queste polemiche: gli esseri umani, quelli cioè che, nel ruolo di cittadini di questo Stato, hanno bisogno, a volte urgente, che siano date risposte alle loro domande di giustizia. Di questi esseri umani, che dovrebbero essere i soli ed autentici destinatari delle attività di tutte queste aggregazioni di magistrati, pronte a litigare e a spartirsi le poltrone, nessuno si occupa. Non sono neppure comparse mute: semplicemente non esistono. Palamara non li ama. Ama la magistratura.
Questa è la cosa più terribile, il sigillo della loro inutilità, che è quello stesso della nostra. Confesso infatti di aver provato – di fronte al candore con cui Palamara cercava di giustificarsi innalzando in realtà un vero inno alla corporazione dei magistrati – un brivido e insieme un disinganno: questo, per aver toccato con mano la mia inutilità di essere umano; quello, per la paura di poter cadere nelle mani di persone del genere. Qual sia tal genere, si capisce bene meditando su alcune parole dette da Palamara in modo confidenziale al suo collega Paolo Auriemma – Procuratore di Viterbo – il quale giudicava “indifendibile” l’accusa di sequestro di persona elevata dal Procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, nei confronti di Matteo Salvini: “Hai ragione, ma dobbiamo attaccarlo lo stesso”, rispondeva Palamara. Così esigeva la sensibilità politica della corporazione, così pretendeva l’equilibrio fra le correnti, così aveva bisogno che fosse l’iniziativa assurda di Patronaggio.
Povero Patronaggio... ammetto che mi sento con lui solidale, per la situazione in cui si venne a trovare quel giorno in cui ebbe a salire a bordo di quella nave allo scopo di visionare di persona le centinaia di persone letteralmente sequestrate da Salvini; e tale sentimento umano mi viene inspirato dal fatto che probabilmente neppure Patronaggio credeva fino in fondo a ciò che stava facendo.
Altrimenti, come ha sagacemente notato Carlo Nordio, se avesse davvero ritenuto che Salvini aveva commesso un sequestro di persona, per prima cosa avrebbe proceduto a liberare i sequestrati, invece di girare i tacchi e andarsene a confezionare il capo d’accusa contro l’allora ministro dell’Interno, abbandonandoli nella mani violente del sequestratore, cioè appunto del ministro e di alcune decine di carabinieri ed agenti di polizia di lui correi (poveretti!).
Capite? Un Procuratore della Repubblica viene a constatare un sequestro flagrante e se ne va senza liberare le persone sequestrate. Per questo, provo umana solidarietà. Perché era un Procuratore che faceva una cosa di cui, nel momento stesso in cui la faceva, non era affatto convinto nel profondo dell’animo e che, in linea di principio, potrebbe costargli l’accusa di omissione di atti d’ufficio o addirittura di correità nel sequestro: di un sequestro che però non c’era. E insieme a lui, come dice Palamara conversando con Auriemma, molti suoi colleghi lo sapevano che questo sequestro non era un sequestro. E che tuttavia bisognava attaccare Salvini ugualmente...
Da qui, il disinganno. E di più il brivido. Mio e di tutti.
Aggiornato il 06 giugno 2020 alle ore 12:26