Silvia Romano: la tenda verde

Criticare Silvia Romano, la cooperante italiana rapita il 20 novembre del 2018 a Chakama, un villaggio a 80 chilometri da Malindi in Kenya e ritornata in libertà da pochi giorni, si può. A costo di mandare in bestia i soliti multiculturalisti italiani, non ci va di tenere la bocca chiusa. Silvia Romano ha diritto al rispetto delle sue scelte di vita come della sua privacy, nessuno lo nega. Tuttavia, il fatto di essere diventata suo malgrado un personaggio noto all’opinione pubblica, le circostanze ambigue della sua liberazione, il ruolo avuto dalla nostra Intelligence e da quella turca nelle varie fasi della trattativa per il suo rilascio, la forte probabilità che lo Stato italiano abbia pagato un riscatto in denaro per riaverla, ci autorizzano a esprimere qualche contrarietà sull’Happy-end della favoletta della santa che si immola per la pace nel mondo. Siamo perfettamente consapevoli della tragedia che ha devastato l’esistenza di Silvia Romano. Bisognerebbe essersi trovati nelle sue condizioni, anche solo per un giorno, per provare a sentire una minima parte del dolore e della paura che l’hanno attanagliata per 18 lunghi mesi.

Ciò la solleva da ogni responsabilità per le cose dette e per i gesti compiuti nei giorni successivi alla sua liberazione, perché è evidente che non si possa stabilire se quelle parole e quei gesti siano frutto di libere scelte, o il prodotto di un lavaggio del cervello subìto, o l’indottrinamento forzato ad opera dei carcerieri, o l’effetto della sindrome di Stoccolma. Saranno gli esperti che l’avranno in cura ad aiutarla a ritrovarsi e a farle riacquistare piena consapevolezza di sé. Cionondimeno, alcuni segnali lanciati dalla giovane al ritorno in patria ci hanno scioccati. A cominciare da quella sorta di barracano verde che indossava all’arrivo a Ciampino. Non staremmo ad almanaccare sulla foggia dell’abito se non fosse che quella palandrana rappresenti in modo plastico la subordinazione sessista della donna alla ferocia discriminatoria del radicalismo islamico. Come ha ricordato nella sua commovente lettera a Silvia Romano la sociologa di origini somale Maryan Ismail, quella veste non appartiene alle tradizioni del suo popolo. Le vesti delle donne somale sono ricche di colori, di profumi.

La “tenda verde”, come la definisce Ismail, indossata da Silvia è il simbolo della brutale sopraffazione di genere che è nel Dna dell’islamismo praticato dalla formazione terrorista degli Al-Shabaab, gli ultimi carcerieri e beneficiari del riscatto nella catena del sequestro della ragazza, compiuto in Kenya e trasmigrato in Somalia, dove si è concluso. Sbattere quella veste in faccia agli italiani che l’accoglievano in patria è stato come inviare loro un messaggio, quanto consapevolmente lo si stabilirà: “Io non sono più del vostro mondo, ma appartengo a un altro universo”. Silvia avrebbe potuto chiedere di cambiarsi d’abito prima di mostrarsi alle telecamere, ma non è accaduto. Se sospendiamo il giudizio sulla consapevolezza del gesto compiuto dalla ragazza, non possiamo però prendercela con i nostri concittadini colti alla sprovvista da quella esibizione d’identità religiosa-ideologica nemica dell’Occidente libero ed evoluto. Condividiamo il paradosso proposto dal direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti: vedere la giovane così conciata è stato come se nel 1945 le truppe alleate avessero visto uscire da un campo di concentramento un prigioniero ebreo sopravvissuto all’olocausto con indosso un’uniforme delle SS.

Solo il tempo potrà chiarire se quella manifestazione d’appartenenza fosse la coda avvelenata della cattività somala o la traccia di un rito di passaggio ad una nuova vita, fondata su valori inconciliabili con la nostra civiltà. Intanto, è bene ricordarle chi siano i suoi sequestratori. Sono jiadisti somali, attivi nel Corno d’Africa. Affiliati alle rete internazionale di Al-Qaida, si costituiscono in gruppo autonomo nel 2006 da una gemmazione dell’Unione delle corti islamiche sconfitta dal Governo Federale di Transizione (Gft) nell’ultima fase della guerra civile somala. Gli Shabaab, in italiano “I giovani”, gestiscono numerosi traffici criminali da cui traggono risorse finanziarie per le attività terroristiche. La specialità per cui sono noti nel mondo è la mattanza di cristiani. Sono le bestie assassine della strage, il 2 aprile 2015, di Garissa in Kenya. Quando entrarono nel campus universitario della città keniota, separarono i cristiani dai musulmani, come facevano i nazisti con gli ebrei. Poi aprirono il fuoco all’impazzata, lasciando sul posto i cadaveri di 147 studenti. E sono gli stessi dell’attentato al centro commerciale Westgate di Nairobi, dove vi furono 63 civili trucidati.

Ora, quello che la giovane cooperante pensi dell’Islam e della vita sotto la legge della Shari’a saranno pure fatti suoi. Ciò che invece c’interessa di sapere è se la cittadina italiana Silvia Romano sia intenzionata o meno a collaborare alle indagini fornendo agli inquirenti tutte le informazioni utili alla cattura dei suoi sequestratori. In mesi di prigionia avrà visto in faccia i carnefici; ricorderà particolari dei luoghi della detenzione. Silvia Romano dimostri di essere grata all’Italia che si è spesa per la sua liberazione. Da quando è giunta al sicuro non è stata udita una sola parola di condanna nei confronti dei suoi aguzzini. Sarà stato per lo stress degli avvenimenti che si sono succeduti. Ci aspettiamo che quando avrà riacquistato le forze qualche parola contro i terroristi assassini le esca di bocca. Comprenda la giovane Silvia quanto caro sia costato riaverla tra noi. I milioni di euro versati agli Shabaab, benché non se ne conosca l’ammontare (forse 4 milioni di euro), non andranno in opere di bene per i poverelli somali ma serviranno “a comprare armi... per portare avanti la jihad” all’interno e fuori del Corno d’Africa, come ha dichiarato in un’intervista a la Repubblica Ali Dehere, portavoce del gruppo terrorista Al Shabaab. Che tradotto significa altre morti, altro sangue e maggiore visibilità ai jiadisti. Come quella ricevuta improvvidamente dal Governo italiano.

La penosa sceneggiata messa in piedi a scopo di lucro elettorale dal duo Conte-Di Maio, all’arrivo della ragazza a Ciampino, ha fatto il giro del mondo. Sul suo catastrofico esito in termini di resa mediatica per i terroristi, volentieri rimandiamo alla lettura del puntuale articolo di Gianandrea Gaiani dal titolo “L’Italia fa un regalo (anzi due) ai jihadisti”, pubblicato sul sito on-line “Analisi Difesa”. Si dice che l’abito non faccia il monaco, ma il caso di Silvia Romano è l’eccezione. Se, aperto il portellone dell’areo, fosse apparsa avvolta in un tricolore ci saremmo sentiti sollevati: sarebbe stata la prova che il male non aveva intossicato la sua giovane mente. Tuttavia, se la conversione all’Islam dovesse in futuro essere confermata; se il cambio d’identità di Silvia in Aisha dovesse essere definitivo; se, risolti gli adempimenti legali in Italia, la giovane cooperante decidesse di rimettersi indosso la tenda verde e fare ritorno in Africa, tra coloro che l’hanno privata della libertà, si senta pure libera di seguire il suo cuore, ovunque la porti. Si premuri però, profittando del soggiorno italiano, di procurarsi un grosso salvadanaio in cui raccogliere i risparmi e le offerte di parenti e amici. Perché, nella sciagurata ipotesi che i terroristi dovessero tornare a sequestrarla per battere nuovamente cassa con gli italiani, si prepari a pagarsi la liberazione di tasca propria. Una volta passi, ma perseverare contro il buon senso e contro ogni logica di prudenza per inseguire un sogno strampalato non le potrà essere perdonato. La cooperante che oggi ci è teneramente cara se la dovrà cavare da sola ove mai si rimettesse nei pasticci per giocare a fare l’amica del giaguaro.

Aggiornato il 13 maggio 2020 alle ore 10:43