
Quante volte negli anni si è sentito ripetere dai presidenti del Consiglio in carica, con autocompiacimento riformatore, il solenne proclama: semplificheremo le procedure, taglieremo la burocrazia.
In realtà, un impegno degno di questo nome dovrebbe essere rivolto alla nostra giustizia, non solo o non soltanto per la scandalosa durata senza fine dei processi, ma per il ruolo dell’accusa che solo in Italia rispetto all’Europa fa del pubblico ministero una sorta di Deus ex machina esaltato dal coro mediatico.
Si ricorderà che un esempio dei toni più acuti di questo coro, seguendo il loro maestro di giustizialismo, fu offerto qualche tempo fa dai grillini che proponevano con entusiasmo il pm Nino Di Matteo nientepopodimeno che alla Presidenza della Repubblica. Con un Alfonso Bonafede plaudente. E con promesse finite in quella che si potrebbe definire una rissa fra comari, se non fosse per i ruoli di entrambi all’interno del sistema giudiziario e, all’esterno, sulla funzione di un ministro della Giustizia. Il quale poteva e può cambiare idea ma rendendosi conto di avere fatto promesse al vento e di averle cambiate col sospetto, vagheggiato dal pm, di pressioni molto sospette. Un pubblico ministero che ha coscientemente amplificato il suo dissenso nel corso di una delle tante dirette tivù che, coi talk-show, special e tavole rotonde, sono una sorta di viaggio nell’horror quotidiano, come e più dei film di Dario Argento.
Una storia a suo modo emblematica sia della figura di un pubblico ministero il quale, nel tempo che fu, rispettava la norma del più rigoroso silenzio consono ai giudici, sia e soprattutto di quella del ministro Bonafede che, con impunita sfrontatezza sposata a goffaggine politica, può essere portato ad esempio dell’inconsistenza, pericolosa, della sbandierata stagione del cambiamento, con grida e insulti contro la vecchia politica, contro la cattiva Europa, contro il Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno; minacce e relativi propositi rivelatisi pura propaganda di cui nessuno in quel Movimento ha avvertito e avverte alcun pentimento pur di non fare autocritica e non pagare di persona. Il che spiega, oltre alle incapacità e inesperienze di governo, il flop, per ora nei sondaggi, di uno pseudo partito ridotto oggi alla metà dei consensi di un anno fa.
Lungi dal giudicare obiettivamente tale arroganza, la prevalenza dei mass media ha lodato la volgare irruenza del comico genovese esaltando la vocazione rivoluzionaria del leggendario “nuovo che avanza” contro il vecchio che resiste. E il conseguente, clamoroso risultato elettorale è riscontrabile in Parlamento con una maggioranza relativa esplicitata nell’approvazione di leggi e leggine recanti la loro firma, e soprattutto nel governo con un grillizzato Partito Democratico, oltre a un piacione e traballante Giuseppe Conte, in ministeri chiave come Giustizia ed Affari esteri, di cui il secondo gestito da un Luigi Di Maio sempre alla ricerca di una audience mediatica ma i cui comportamenti sono attentamente osservati nella “nuova” politica estera di un Paese fondatore della Ue, dove qualche stupore suscitano i giri di valzer con sorrisi e preferenze per una Cina lontana piuttosto che per una Europa vicina.
Aggiornato il 12 maggio 2020 alle ore 10:29