Lo strano silenzio su Draghi

lunedì 11 maggio 2020


Non si è acceso alcun dibattito sul messaggio in bottiglia lanciato da Giancarlo Giorgetti tra i marosi agitati della politica italiana su quale potrebbe essere lo sbocco di una eventuale crisi del Governo Conte nel caso di una scivolata sul Mes o sul caso Bonafede-Di Matteo.

L’idea di dare vita ad un Governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi divide i partiti dello schieramento giallorosso ma non è riuscita ad alimentare una qualche riflessione autorevole non tanto sul significato di una proposta del genere quanto sulla dimensione e sulla portata effettiva di tale operazione sulla situazione politica ed economica del Paese. Nessuno mette in discussione la tradizione secondo cui le grandi emergenze, belliche o pandemiche che siano, possano favorire la formazione di governi di unità nazionale come avvenne nel 1917 dopo il disastro di Caporetto. Il problema, semmai, è che questa soluzione sembra interessare al momento solo chi potrebbe perdere o guadagnare un posto da ministro o sottosegretario, ma non riesce a far scattare alcun interrogativo su quale dovrebbe essere il compito storico di un governo sostenuto da tutti e guidato dal più autorevole personaggio di livello europeo ed internazionale presente oggi nel Paese.

Mettere in piedi una operazione di simile portata non può risolversi nella semplice sostituzione di Conte con Draghi. È chiaro che da quest’ultimo ci si dovrebbe aspettare un grande progetto di risanamento e di rilancio dell’economia nazionale da far scattare nel momento dell’avvio effettivo della ripresa dopo la chiusura.

Nessuno fino ad ora ha chiesto a Draghi di fornire un qualche indicazione sul possibile progetto. Non per rispetto nei confronti del personaggio, ma nel timore che ci possa essere una risposta chiara destinata a far esplodere le contraddizioni e le divergenze che si stanno manifestando proprio sul grande tema dell’indirizzo di fondo da dare alla ripresa. Quello liberale e liberista dato da Einaudi e De Gasperi nel secondo dopoguerra italiano con la scelta del modello atlantico o quella del modello dell’intervento dello Stato compiuto dopo la crisi del ’29 rivisitato secondo i meccanismi e gli schemi attuali del cosiddetto modello cinese?

Non c’è alcun dubbio su quello che possa essere l’indirizzo di fondo di Draghi sull’argomento. Ma deve essere per questo che tutto tace. I nostalgici dell’Iri ne sarebbero sconvolti, insieme con quei critici del capitalismo cinico alla Bettini che non hanno mai superato del tutto il trauma della sconfitta del ’48. E sperano nella rivincita magari realizzata all’insegna di quel pauperismo gesuitico terzomondista che sembra diventato il solo contributo della Chiesa bergogliana all’argomento.


di Arturo Diaconale