lunedì 4 maggio 2020
Giunge notizia che una parte della magistratura italiana ha indirizzato una lettera al governo, chiedendo che le modalità eccezionali con cui i processi – civili e penali – sono stati celebrati nelle ultime settimane, vale a dire in teleconferenza, a causa della diffusa pandemia, vengano stabilizzate come modalità abituali. Ovviamente, gli avvocati protestano, cercando di convincere il governo della assurdità di una simile proposta. Altrettanto ovviamente, gli italiani – che poi sarebbero i diretti interessati all’esito di questa polemica – tacciono sul punto e forse nemmeno capiscono esattamente di cosa si stia parlando. E invece dovrebbero tutti cercare di capire, se non altro perché si sta parlando di tutti e di ciascuno, nella prospettiva della civiltà giuridica e politica di un popolo intero o in quella della barbarie.
In poche parole, va detto in modo chiaro e senza tema di errore che celebrare i processi – civili e penali – a distanza, avvalendosi di mezzi telematici di comunicazione, se rappresenta di certo il sogno non più nascosto di tutti i cinque stelle (Beppe Grillo in testa) e di coloro che – come buona parte di loro – hanno portato il cervello “all’ammasso”, di fatto non è che il “Requiem” per il processo in se, per ogni tipo di processo. Infatti, elemento fondamentale della celebrazione di ogni processo (sì, anche di quello civile, il quale, a differenza di quello penale, si avvale prevalentemente di atti scritti) è la compresenza di giudici, parti, difensori, testimoni, periti.
Insomma, chi partecipa al processo e contribuisce con le proprie dichiarazioni, con i propri atti, con la propria competenza, a determinarne l’esito, non può in alcun caso rimanere – occultato e invisibile – celato da una sconcertante e indecifrabile lontananza, ma deve mostrare a tutti gli altri, e soprattutto al giudice, il proprio volto. Vi pare cosa da poco? Il volto di ciascuno di noi parla ancor più e meglio delle parole pronunciate che possono acquisire addirittura un significato diverso a seconda del modo in cui il volto le accompagni, con la sua mimesi, con l’atteggiarsi delle labbra, con la fessurazione degli occhi, con la postura del capo.
Si badi. Non intendo in alcun modo riferirmi a quella psicologia contemporanea che si affanna a ricostruire – anche in sede processuale – le possibilità estreme di una comunicazione tacita attuata attraverso le posizioni assunte dal corpo: questa lezione psicologica non solo non mi interessa qui, ma mi appare anche tanto fragile da non metter conto se ne parli. Intendo invece ricordare a chi lo avesse dimenticato – e non sono pochi – come (lo notava Emmanuel Lévinas) ciascun essere umano entri davvero in comunicazione con il proprio simile soltanto attraverso il volto che questi offra al suo sguardo. In questo senso il volto dell’altro ci “ri-guarda”, nel doppio senso secondo il quale, per un verso, esso risponde al nostro sguardo originario e, per altro verso, attiene alla nostra stessa vita, alla nostra responsabilità, al nostro modo di abitare il mondo.
In questa prospettiva, solo il rispecchiamento reciproco dei volti (delle parti, dei difensori, dei giudici) costituisce la via privilegiata per veicolare la verità di ciascuno, non perché il volto dica sempre la verità, ma perché non ci può essere mai manifestazione di verità che non sia veicolata dal volto; da ciò che permane nel volto ben oltre i tratti somatici esteriori e gli elementi ambientali di contorno e che traluce attraverso il senso da esso rivelato. Ci vuol poco a capire allora come il processo telematico annulli del tutto questa delicatissima dialettica umana, tesa alla reciproca conoscenza e ri-conoscenza, riducendo il rapporto intersoggettivo endoprocessuale ad una sistematica organizzata (spesso zoppicante) di una pletora di impulsi elettronici uditivi e visivi, fatalmente destinati ad opacizzare la verità di ogni essere umano: la negazione assoluta del volto dell’altro. Chiedere che Alfonso Bonafede rifletta su questi aspetti è forse pretendere troppo; e sperare che essi siano meditati nelle aule universitarie appare purtroppo velleitario: in entrambi i casi, si preferisce il pragmatismo più spinto e tuttavia cieco.
Pare infatti che l’ultimo testo normativo dal governo varato e con il quale si ripristina il processo tradizionale svolto nelle aule di giustizia, preveda anche che le parti possano di comune accordo rinunciarvi per utilizzare invece la tecnologia telematica. Bonafede crede insomma che il volto dell’altro, nel senso sopra precisato, sia rinunciabile dai protagonisti del processo: basta mettersi d’accordo. Come se l’altro – ogni altro – fosse nella piena disponibilità di ciascuno: una sciocchezza monumentale che finirebbe con l’inaugurare un mero simulacro, un processo spettrale, senza volti, senza esseri umani, spodestati dall’armamentario tecnologico che ne prende il posto. Saremmo davanti allora – lo si sappia o no – alla morte del processo.
di Vincenzo Vitale