
Ancora una volta il Conte bis ha dimostrato di predicare bene e razzolare male. Smentendosi, il Governo ha lavorato con il favore delle tenebre a confezionare il pacchetto delle nomine ai vertici delle grandi aziende partecipate dallo Stato. Soltanto a cose fatte sappiamo com’è andata: il Partito democratico ha preso il grosso della posta sugli amministratori delegati, mentre sotto l’etichetta Cinque stelle sono finiti la maggior parte dei presidenti. Un bel risultato per un movimento che è nato dichiarando di non volersi sporcare le mani con i giochi di potere. Invece, i grillini se le sono sporcate. Eccome! Anche se a ben vedere non è che abbiano fatto “Bingo!”. Intendiamoci, dal punto di vista formale i pentastellati hanno partecipato da protagonisti al banchetto sui vertici dei colossi di Stato.
Facendo spallucce alla logica dell’emergenza, che avrebbe consigliato un coinvolgimento responsabile delle forze dell’opposizione nelle scelte più rilevanti, i soci del Conte-bis hanno svuotato la dispensa. Ma non in eguale misura. Il Pd ha badato a tenersi stretti gli amministratori delegati concedendo ai grillini di mettere becco nella scelta dei presidenti. C’è differenza. Comparando le funzioni operative degli amministratori delegati a quelle dei presidenti dei Consigli di Amministrazione si comprende benissimo dove sia riposto il maggior peso decisionale. Ed è lì che i “dem” hanno vinto. Nella giostra degli amministratori delegati il Cinque stelle comunque si aggiudica le poltrone di seconda fila. La posizione di ad in Terna, la società delle rete di energia elettrica, va a Stefano Donnarumma (nella foto), giunto dalla nidiata di manager del Comune di Roma. Donnarumma è ad di Acea, la municipalizzata di Roma per elettricità, gas e acqua, come pure il nuovo Ceo di Enav, la società di gestione del traffico aereo, Paolo Simioni, personaggio vicino alla sindaca Virginia Raggi per conto della quale ha amministrato l’Atac, azienda della mobilità di Roma capitale, con risultati discutibili. Eppure, a scorrere la lista dei presidenti nominati in capo alla componente grillina qualcosa non torna.
In palio vi erano le posizioni in Poste Italiane, Enel, Eni, Leonardo. La casella della presidenza di Poste italiane rimane occupata da Maria Bianca Farina. Manager che proviene dal mondo cattolico. Nominata nel 2014 da Papa Francesco membro del Consiglio direttivo dell’Aif, Autorità di Informazione Finanziaria e di Vigilanza della Santa Sede. Dal settembre 2015, nel Consiglio direttivo della Fondazione “Bambino Gesù Onlus” e Consigliere di Amministrazione di “Save the Children”; in precedenza, Farina ha avuto un’esperienza all’interno della galassia “Poste” da Amministratore delegato di Poste Vita Spa e Poste Assicura Spa. Quindi, dal curriculum si evince che non nasca grillina. Ugualmente il generale di corpo d’armata della Guardia di Finanza Luciano Carta, designato al ruolo di presidente del Gruppo Leonardo. Uomo dello Stato, Carta lascia la direzione dell’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) dopo una lunga carriera militare costellata di successi.
Chi lo conosce lo descrive con caratteristiche che lo accomunano a molti uomini pubblici venuti dalla sua terra d’origine, la Sardegna: rigoroso, riservato, tenace. L’indicazione del suo nome per sostituire Gianni De Gennaro alla testa dell’azienda che si occupa della costruzione di apparati di difesa e di aero-spazio sarebbe venuta dal presidente del Consiglio al quale, secondo fonti de Il Sole 24 ore, lo accomunerebbe la devozione per Padre Pio. Appiccicargli addosso l’etichetta di grillino sarebbe quanto meno oltraggioso. Alla presidenza dell’Enel approda Michele Crisostomo. Leccese, avvocato specializzato nell’assistenza a banche e assicurazioni. La più importante stella sul suo curriculum è stata la vittoria contro l’Ue nel ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione europea per la vicenda dell’acquisto di Banca Tercas (ex Cassa di Teramo) da parte della Banca popolare di Bari. È stato consigliere di amministrazione di Ansaldo Sts, in rappresentanza del socio Elliott che nella cosmogonia del grillismo delle origini sarebbe il diavolo. Poi c’è la presidenza dell’Eni, il bersaglio grosso della trattativa, che è andata a Lucia Calvosa.
Un errore definirla organica al Movimento pentastellato. Docente di diritto commerciale all’Università di Pisa, la professoressa Calvosa è membro indipendente del Consiglio di amministrazione della società per azioni che edita Il Fatto Quotidiano. Ad essere puntigliosi bisognerebbe dire che la nomina sia riconducibile non al Cinque Stelle ma al suo sponsor principale che è il giornale “manettaro” di Marco Travaglio. Una scelta che dovrebbe indignare i duri e puri del partito degli onesti, perché propone un conflitto d’interessi gigantesco. L’Eni ha avuto dai tempi di Enrico Mattei un fortissimo ascendente sulla politica italiana. Parte del mondo dell’informazione è stato condizionato dall’influenza di potere della principale azienda di Stato che è stata proprietaria di testate giornalistiche l’Agenzia giornalistica Italia (Agi) appartiene ancora oggi al gruppo Eni. Ora però avviene il contrario: un giornale mette le mani su una fonte inesauribile di potere.
Se una cosa del genere l’avesse solo pensata Silvio Berlusconi, provando a dare la presidenza di Eni a un membro del Consiglio di amministrazione di Mediaset, si sarebbe scatenato il finimondo. Neanche immaginiamo la veemenza con cui il direttore de “Il Fatto” avrebbe aizzato la magistratura per fermare il supposto attentato alla libertà dell’informazione. Oggi accade l’impensabile e tutti zitti. Ma Il Fatto non è solo lo strumento di guida politica e morale dei Cinque stelle, è soprattutto il “giornale delle Procure”. È la cassa di risonanza di quella parte della magistratura che ha scelto di contrastare la politica con metodologie d’indagine alquanto aggressive, se non sfacciatamente faziose. Ha ragione Piero Sansonetti che dalle colonne de Il Riformista dello scorso 18 aprile denuncia che: “questo legame strettissimo con le Procure più aggressive conferisce al Fatto una grande potere.
Sulla politica e sugli altri giornali. Tutti temono Il Fatto. Naturalmente questo potere si moltiplicherà per dieci e per cento se Il Fatto aggiungerà nella cassetta dei suoi attrezzi di potere anche l’Eni. Ci troveremo di fronte a un giornale che è espressione del governo, della magistratura e dell’Eni”. Da ciò si deduce che non i grillini ma il gruppo del Fatto sia entrato nella stanza dei bottoni e abbia opzionato il tasto più potente. Non si pensi però che i Cinque stelle siano una banda di sprovveduti. Non si sono sporcati le mani per niente o per fare regali agli amici degli amici. Luigi Di Maio è riuscito a piazzare un suo uomo nel Consiglio di amministrazione di Leonardo Spa. Si tratta di Carmine America, conterraneo ed amico personale nonché collaboratore del ministro degli Esteri.
È ipotizzabile che il ruolo assegnatogli nella principale azienda del comparto Difesa non sia quello di tenere alta la bandiera dei sacri furori anti-militaristi dei grillini ma di presidiare le scelte strategiche dell’azienda, in particolare riguardo al sito industriale Leonardo-Finmeccanica di Pomigliano d’Arco, dove lo scarso anno sono confluiti 130milioni di euro di investimenti per rilanciare la produzione. E Di Maio, come l’alieno E.T., quando sente nominare Pomigliano d’Arco risponde: casa. L’aver ceduto il grosso della torta in palio al Pd ha consentito al partito di Beppe Grillo di affondare i denti sul boccone ghiotto: la guida di Monte dei Paschi di Siena. Con la designazione in quota M5s di Guido Bastianini, ex vicedirettore di Capitalia, presidente di Banca Profilo e, nel 2017, ad di Banca Carige, e la presenza consolidata in Cassa depositi e prestiti, si consolida l’assalto grillino al cielo della grande finanza italiana. Oggi Beppe Grillo potrà rispondere affermativamente alla medesima domanda che, nel 2005, l’allora segretario dei Ds Piero Fassino rivolse, in una telefonata che non gli portò bene, a Giovanni Consorte, ad di Unipol: “Abbiamo una banca?”.
Questa tornata di nomine è stata politicamente strategica perché servirà ad avvelenare i pozzi alla prossima maggioranza governativa. Anche se tra sei mesi o un anno si dovesse tornare a votare e i Cinque stelle venissero ridotti al lumicino, un nuovo Governo della destra plurale dovrà affrontare una fatica ciclopica per mandare avanti il Paese avendo nei posti chiave dell’industria di Stato e della cassaforte pubblica gli alfieri dei “dem” e dei “grillini”. E allora sarà davvero dura cambiare il mondo.
Aggiornato il 22 aprile 2020 alle ore 11:57