
Avete provato per caso a leggere il Decreto sulla liquidità alle imprese e ai privati entrato in vigore pochi giorni fa e tanto sbandierato dal governo come il testo normativo che avrebbe messo a disposizione di tutti un primo salvagente oggi quanto mai necessario? Io ci ho provato prima da solo – faccio questo mestiere ormai da quattro decenni – e poi con i miei collaboratori: non ci abbiamo capito quasi nulla. Allora mi son rivolto, ipotizzando fosse un testo più comprensibile per chi avesse una certa dimestichezza con fatturati, bilanci e finanziamenti, ad un mio caro amico, noto e prestigioso commercialista di una grande città italiana: mi ha però detto di non averci capito quasi nulla. Poi lo stesso presidente nazionale dell’Ordine dei commercialisti ha confessato di aver molte difficoltà a comprendere il significato di quelle norme. Insomma, o siamo tutti improvvisamente diventati semideficienti, dal momento che non riusciamo a intendere il senso di un testo normativo oppure si tratta di norme scritte in modo maldestro, in un italiano improbabile, confuso, a volte ridondante, altre reticente, ma in ogni caso oscuro e incomprensibile.
La verità, purtroppo, come molti professionisti italiani ben sanno, è quest’ultima. Da diversi anni il confezionamento dei testi normativi è progressivamente peggiorato sia dal punto di vista dell’uso della lingua italiana, sia da quello del senso giuridico di volta in volta veicolato e che, ovviamente, dipende in larga misura da quell’uso. Domanda: ma chi sarà mai che, machiavellicamente, in concreto scrive questi testi? Di chi la malefica mano che li verga? Quale nefando intelletto li partorisce? Esempio. Il testo di legge che prevedeva la moratoria sui mutui – precedente a quello attuale – non solo è costituito da centinaia di articoli (il che è già un’assurdità), ma da centinaia di commi per ogni articolo. Insomma, un delirio concettuale e linguistico, come risulta chiarissimo sol che si pensi come sia necessario cercare di uscire da quel mefitico labirinto destreggiandosi fra il comma n° 382 e il comma 527 del medesimo articolo di legge: vi sembra serio e sopportabile? A me no, per nulla. E non si tratta soltanto di capire, che già è cosa necessaria; si tratta anche di assicurare la vigenza della stessa legge su tutto il territorio nazionale, evitando l’arbitrio di ciascuno, come purtroppo si verifica spesso.
Altro esempio. Se un architetto deve progettare – poniamo una piscina – in due comuni limitrofi, avrà cura non già di cercare di capire cosa esigano in proposito le leggi urbanistiche, poiché molte di queste sono incomprensibili; invece, si farà comunicare dagli uffici tecnici dell’uno e dell’altro cosa loro esigano allo scopo e farà in modo di accontentarli entrambi, anche se ciascuno pretenderà cose diverse dall’altro, poiché avrà interpretato la medesima legge a modo suo, inappellabilmente. Questo significa una cosa sola e gravissima: e cioè che la legge in Italia non vige da nessuna parte, non trovando applicazione se non attraverso il puro arbitrio di chi dovrebbe rispettarla, ma non può farlo, anche volendo, perché essa è a tal segno astrusa, contorta, illeggibile, da prestarsi ad ogni interpretazione, ma anche al suo contrario. Per non parlare poi dei ricorsi in tal modo propiziati e dell’enorme lavoro che si chiede ai tribunali, sommersi da un contenzioso assurdo ed evitabilissimo.
E dunque, di chi la responsabilità di un tale stato di cose? Principalmente, dei dirigenti e dei funzionari ministeriali, i quali sono coloro che di fatto redigono i testi normativi, al di là della volontà politica di ministri e sottosegretari. Costoro rappresentano il fiore avvelenato e maligno della più perversa burocrazia, capace di perpetuare se stessa in modo indefinito attraverso il culto sacralmente offerto alla congerie di quegli “arcana imperii”, già identificati dalla scienza politica (con Ernst Kantorowicz), e che costituiscono il frutto maturo di una terribile dominazione sui cittadini, resi sudditi inermi di una legge oscura e indecifrabile e distillata a lor piacere dai burocrati di turno. Il ceto burocratico ministeriale – inamovibile perché occupa le poltrone per concorso pubblico, mentre un ministro cambia ad ogni sommovimento politico – scrivendo leggi incomprensibili, persegue due scopi.
Il primo è quello di auto perpetuare la propria esistenza, come aveva già chiarito Max Weber, ammantando le strutture burocratiche di una sovrana intangibilità: loro e soltanto loro possono capire la legge e sono in grado di decifrarne i misteriosi intendimenti e gli oscuri meccanismi, sottratti alla interpretazione dei comuni esseri umani (ecco gli “arcana imperii”) e dunque godono di una superiorità assoluta e quasi sacrale su ogni altra espressione statuale e giuridica. Essi sono allora per definizione i sacerdoti della legge.
Il secondo scopo è quello di svuotare la legge – pur mantenendola formalmente in vigore – di ogni nucleo di verità, a favore dell’arbitrio del piccolo burocrate locale, che potrà interpretarla come gli parrà opportuno e possibile all’interno del proprio perimetro di competenza, ben grato a questo perverso sistema che lo renderà una sorta di incontrastato “reuccio” nella gestione del proprio potere, del quale a nulla e a nessuno dovrà rendere conto. Da qui, ovviamente la spinta verso la corruzione e il mercimonio dei pubblici uffici. Questi effetti nefandi, antidemocratici e antigiuridici sovvertono alla base la ragione di fondo della signoria della legge scritta che aveva segnato – col suo apparire e col suo affermarsi – la nascita dello Stato di diritto in senso moderno.
Infatti, in epoca post-illuministica, si volle che – una volta individuati i principi del diritto attraverso l’uso della ragione, liberata dai pregiudizi – questi si mettessero per iscritto allo scopo di farli conoscere da tutti e da tutti farli intendere. Intendere il vero senso della legge è però oggi del tutto impossibile, come si è visto. Siamo ormai perciò da tempo al di fuori dello Stato di diritto, perché la legge è divenuta un vuoto simulacro. E lo si deve proclamare ad alta voce. Il peggio è che questa confusione inesplicabile tramortisce anche il capo del governo. Infatti, Giuseppe Conte, poche sere fa, durante una conferenza stampa a reti unificate per ben tre volte ha affermato che il decreto liquidità avrebbe assicurato fino a 25mila euro per ogni partita Iva, a semplice richiesta e senza alcuna valutazione da parte della banca. Lo ha ripetuto tre volte, non due. Tre. Ebbene, nulla di ciò. Nessuna traccia nel decreto.
Il solo numero 25 che venga citato lo è per dire che si potrà chiedere in banca non oltre il 25 per cento del fatturato del precedente anno fiscale, cosa molto diversa da quella detta da Conte. E allora, escluso che Conte abbia deliberatamente voluto dire una cosa per l’altra, dobbiamo dedurne che anche lui si è confuso, senza capire davvero il senso del decreto che lui stesso aveva firmato. Non c’è che dire! La legge che, in una società ad alta complessità come la nostra, dovrebbe servire a razionalizzarla rendendola più semplice e leggibile, ne diviene invece un ulteriore e perverso coefficiente di complicazione. La legge diviene inutile, se non dannosa, al punto da irretire nelle spire della sua impossibile decodifica perfino il capo del governo. Se, nel nome dello Stato di diritto e della umanità stessa, non si porrà mano ad una decapitazione del ceto burocratico oggi onnipotente, ogni altra iniziativa sarà vanificata. Questa la vera ed indifferibile rivoluzione, pacifica, da promuovere. I politici di ogni colore dovrebbero capire questo. Lo capiranno? Ne dubito.
Aggiornato il 17 aprile 2020 alle ore 11:18