
Carlo Levi titolava un’opera, dedicata alla denuncia della condizione sociale nella Sicilia del suo tempo: “Le parole sono pietre”. Un’espressione forte, assertiva che ha presto sciolto il legame diretto col testo per assumere valenza polisemica. Le parole hanno un peso, una forza propria. Chi le maneggia deve essere cosciente della responsabilità che assume nel farlo, in particolare se esse sono destinate a influenzare i destinatari che, nel nostro caso, sono i lettori.
Chi assume l’onere di cimentarsi nell’esercizio dell’opinione dovrebbe mantenersi in rotta con la stella polare che è la corrispondenza biunivoca della parola, da un verso, al suo significato, all’etimo, dall’altro alla realtà sottostante che intende rappresentare. È, tuttavia, vero che uno dei mali del nostro presente sia costituito dall’uso leggero, superficiale, talvolta spregiudicato, delle parole sul presupposto che esse siano agevolmente intercambiabili in base alla reazione emotiva di chi le riceve. E per questa pessima abitudine indiziati, insieme ai politici, sono i cosiddetti “opinionisti”. Quando si scrive per cercare di procurarsi tifoserie niente di più facile che manomettere la valenza semantica delle parole per farne corpi contundenti con cui colpire i lettori. Senza troppo riflettere sulle conseguenze di certi usi disinvolti di esse. Appunto, parole come pietre. Che se scagliate a sproposito fanno male, rovinano esistenze, distruggono reputazioni, inquietano, allarmano, creano disordine. Insomma, il peggio che dà fondamento di verità a un proverbio antico per il quale “Ne uccide più la penna che la spada”.
Per coloro che militano in ambienti giustizialisti, un uso improprio o superficiale delle parole potrebbe essere financo un complimento, una tacca sulla pistola della diffamazione professionalizzata; per un garantista attento alla dignità delle persone sarebbe invece un’onta insopportabile. Ora, ci è stata rivolta una critica circa l’uso inappropriato che recentemente avremmo fatto del termine “peste” per descrivere il Coronavirus. Abbiamo esagerato? Abbiamo usato a sproposito la parola? Lo abbiamo fatto con l’intenzione di seminare allarmismo tra i lettori? Sono domande legittime che richiedono risposte. Partiamo dal fatto. Corrisponde al vero che nell’editoriale “Coronavirus: Resistere, resistere, resistere!” pubblicato su questo giornale, il Coronavirus sia stato definito: “la peste del nostro tempo”. Chi critica, accusandoci di inviare “messaggi sbagliati e devastanti”, argomenta sostenendo che la peste sia altra cosa. Quella del 1300 dei tempi del Boccaccio o quella del 1630 che ha ispirato i romanzi di Alessandro Manzoni furono peste, anche per le dimensioni del contagio e per il numero dei morti causati. Peccato, però, che si confonda il particolare con il generale. Il significato della parola peste, dal latino pestis, è “distruzione, rovina, epidemia” (Treccani). Quindi, è sbagliato identificare il significato della parola esclusivamente con l’azione di un batterio, il cocco-bacillo Yersinia pestis che agì in casi come quelli riportati dalla letteratura manzoniana. Mutuando dalle scienze naturali si potrebbe asserire che, in linguistica, peste bubbonica, peste suina o peste del metallo, siano alcune delle specie di un ampio genere.
D’altro canto, la parola ha anche un uso figurato. Se diciamo “quel bambino è una peste”, intendiamo dire che è un irrequieto combinaguai oppure che è l’organismo ospite del batterio Yersina pestis? Neppure è questione di contabilità dei contagiati o dei morti. La misura della devastazione che provoca un’epidemia non è espressa in numeri assoluti ma è relativa alle condizioni di contesto rilevate al momento del diffondersi del contagio. La pandemia conosciuta come “influenza spagnola” è un esempio calzante. La stima dei morti per la “Spagnola”, tra i 50 e i 100 milioni d’individui nel mondo, appare in sé elevatissima ma non lo è se si valuta il momento storico della sua diffusione. Era il 1918. Il finire della Prima guerra mondiale, condizione di miseria diffusa in tutte le aree del mondo, mancanza di risorse economiche già destinate allo sforzo bellico, nessuna cultura epidemiologica presso le popolazioni, inesistenza di farmaci e di conoscenze medico-scientifiche idonee a contrastare l’avanzata del morbo, inadeguatezza complessiva dei sistemi sanitari nazionali a fronteggiare fenomeni pandemici: fu un miracolo che non fosse andata peggio. La popolazione mondiale censita all’inizio del Novecento era di 1 miliardo 650 milioni di individui (fonte: Report - data U.N. 2004). Nelle condizioni generali descritte, l’impatto di circa il 3 per cento di vittime della “Spagnola” sull’universo della popolazione mondiale potrebbe essere inferiore a quello di un Coronavirus che, nel 2020, in uno scenario radicalmente diverso, con uno straordinario progresso scientifico in campo sanitario e nella ricerca e in condizioni di benessere esteso ad ampie fasce di popolazione incomparabile rispetto a un secolo orsono, ha provocato ad oggi 82mila morti, secondo i dati della Johns Hopkins University. Non è un giudizio soggettivo di valore, ma un fatto: il Coronavirus è letteralmente la peste dei nostri giorni.
Tuttavia, particolare attenzione richiede il quesito posto dalla critica: parlare di peste è fomentare catastrofismo? Non v’è dubbio che quel che sta accadendo, a differenza di altre tipologie patologiche conosciute e metabolizzate o, se si vuole, “messe in conto” dall’individuo come conseguenze nefaste di condotte volontarie, generi ricadute negative sullo stato d’animo delle popolazioni colpite, in particolare nell’Occidente avanzato. Ciò lo si deve a chi si presume che per un qualche interesse, più o meno confessabile, calchi la mano nel terrorizzare l’opinione pubblica? A riguardo, pensiamo che il vero problema che la pandemia abbia sbattuto in faccia alla gente comune, senza debito preavviso, sia il medesimo posto al centro della sua riflessione sulla morte da Edgar Morin: l’uomo è adattato o disadattato alla morte? Per il filosofo francese, il triplice dato di coscienza della morte (consapevolezza di una frattura reale, trauma della morte, credenza nell’immortalità) rivela un disadattamento di fondo: “Trauma della morte e credenza nell’immortalità confermano la natura essenziale di questo disadattamento, con la loro presenza costante e violenta nella preistoria e nella storia umana”. La capacità difensiva dell’individuo nel tenere lontano da sé il confronto a viso aperto con l’evento ineluttabile della fine dell’esistenza, dribblando con calcolata ignavia quelle degli altri, tenute a distanza di sicurezza emotiva dalla propria sfera di prossimità esistenziale, viene messa in crisi dalle caratteristiche offensive del virus. Silenzioso, subdolo, invisibile, esso colpisce senza preavviso, senza che i fattori protettivi della convivenza comunitaria: la medicina, l’assistenza sanitaria, la solidarietà sociale, lo Stato, possano fare scudo.
Il senso d’impotenza che mette a nudo la fragilità dell’essere umano, anche all’interno degli aggregati comunitari alla cui appartenenza, per scelta ancestrale, l’individuo ha affidato le sue chances di sopravvivenza, genera uno stato d’angoscia che rapidamente muta in paura. Paura del morbo, paura dell’altro che lo veicola, paura della morte con i suoi inscindibili corollari di paura della sofferenza e paura della solitudine. È così che il meccanismo innescato dalla notizia dell’insorgere della malattia, proseguito dalla sua diffusione, prima epidemica poi pandemica, si conclude, in un insolito cortocircuito, con la crisi dell’individualità come “esperienza antropologica fondamentale” (Morin). È il “non ci sto” che ognuno vorrebbe gridare al nemico, pur nella consapevolezza che quel tipo di nemico non sia solito tenerne conto. Non v’è alcun bisogno, dunque, di provocare allarmismo giacché ciascun individuo è consapevole di essere messo di fronte a un problema, quello dell’adattamento alla morte, per il quale non è attrezzato a rispondere.
Per dirla con Sigmund Freud: “Non possiamo più conservare il nostro antico atteggiamento di fronte alla morte, e ancora non ne abbiamo trovato uno nuovo”. Se questa è la luna come si può affermare che il problema sia il dito di chi si sforzi di descriverla? I critici riflettano.
Aggiornato il 10 aprile 2020 alle ore 11:52