Il tempo sospeso e il coraggio della politica

venerdì 10 aprile 2020


Per quanto tempo ancora la maggioranza governerà a colpi di decreti legge, il Parlamento rimarrà in pausa, l’opposizione non farà compiutamente il suo mestiere? Per quanto tempo ancora il governo beneficerà dell'indulgenza pandemica?

Il tempo sospeso della politica è condizione innaturale della democrazia. È come se fosse sospesa la democrazia stessa. La questione non è teorica. Superare il tempo sospeso è indispensabile per un motivo tanto concreto quanto urgente: fare ripartire il Paese e la sua economia. È infantile credere che lo si possa fare soltanto col debito e con misure eccezionali, come quelle varate dal governo in questi giorni, anche fossero - e non lo sono - le migliori possibili.

Quelle misure, pure significative, producono gli stessi effetti di una tanica di benzina rovesciata in un serbatoio vuoto. L’auto riparte, ma dopo pochi chilometri si ferma di nuovo. La ripresa, per essere davvero tale e duratura, ha bisogno di interventi profondi e radicali. Ha bisogno della risoluzione dei deficit strutturali del Paese: dalle tasse all'amministrazione pubblica; dalle infrastrutture ai trasporti; dalla scuola all’università e alla ricerca; dalla digitalizzazione all’innovazione tecnologica; dal diritto alla giustizia. E poi ha bisogno della riqualificazione della spesa, della riduzione di quella improduttiva e finalmente di un freno deciso agli sperperi di denaro pubblico. In una parola, la ripresa sarà tale e sarà duratura se prevarranno pensiero, competenza, lungimiranza e solo se sarà avviata una rivoluzione strutturale ispirata alle libertà.

Altrimenti la folle corsa al debito, nella quale Stato e imprese si stanno avventurando, si potrebbe trasformare in una discesa agli inferi e lo statalismo di ritorno, pure esso sorretto unicamente dal debito, potrebbe catapultare il Paese in orbite economiche rovinose. Anche solo ipotizzare - come stanno facendo i vertici del Movimento 5 Stelle e alcuni ministri - la creazione di un nuovo Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), già fondato dal fascismo nel 1933 e accumulatore di perdite gigantesche fino a vent’anni fa, è allarmante. La proposta può infatti voler dire due cose, entrambe negative: non conoscere la storia economica dell’Italia e dell’Europa, e men che meno i motivi per i quali l'economia di stato fallì insieme a quell’ente pubblico; oppure, e sarebbe gravissimo, voler usare la pandemia come pretesto, come lasciapassare per ridurre progressivamente il libero mercato e radicare pian piano un sistema di “capitalismo politico” proprio dei regimi illiberali, ad iniziare da quello cinese.

D’altra parte, il fatto che il Paese si trovi nell’emergenza non è motivo convincente perché l’opposizione continui ad aspettare Godot, a tenere, cioè, atteggiamenti soft e a guardare dalla finestra le decisioni del governo in attesa di tempi migliori. Anzi, la storia testimonia che proprio nei momenti più bui della vita di un popolo i suoi rappresentanti d’opposizione devono trovare il modo e la forza di rovesciare il banco, non per il gusto di proclamarsi vincitori, ma per evitare il peggio a quel popolo che rappresentano.

Come ha ricordato su queste colonne anche Cristofaro Sola in un brillante editoriale di qualche settimana fa, Arthur Chamberlain, nel 1940, in pieno conflitto mondiale, fu sostituito da Winston Churchill. Le parole che furono pronunciate dal deputato conservatore Leopold Amery alla Camera dei Lord quando ne chiese le dimissioni sono passate alla storia. Riprendendo Oliver Cromwell, disse: “Siete rimasto seduto troppo a lungo, quale che sia il bene che avete fatto. Andatevene, vi dico, e liberateci dalla vostra presenza. In nome di Dio andatevene!”.

Non so dire chi possa essere il nostro Churchill, quel che so è che riforme strutturali come quelle indicate poc’anzi non possono essere ideate e portate avanti da un governo nato per caso, retto da partiti statalisti e la cui principale ricetta sono debito e tasse, un governo nel quale la coesione interna è finzione e la regola dell’”uno vale uno” è motivo di vanto, quasi fosse un certificato di garanzia anziché, com’è in realtà, un imbroglio culturale bell’e buono.

Il tempo sospeso della politica deve finire il prima possibile. Farlo finire spetta anzitutto, come si è detto, alle forze d’opposizione. Ma non solo: anche i partiti di maggioranza che abbiano ormai messo a fuoco l’inettitudine dell'esecutivo, del quale eppure fanno parte, sono determinanti per uscire dallo stallo.

Passato il periodo acuto dell’emergenza sanitaria, allora, aprire la crisi di governo non sarebbe atto di irresponsabilità, nient’affatto. I partiti, molto semplicemente, tornerebbero a fare il loro lavoro, ossia a misurarsi coi numeri in Parlamento, discutere sui programmi, confrontarsi col Capo dello Stato per la ricerca delle migliori soluzioni per il Paese. Niente di irresponsabile o di eversivo, dunque, solo la traduzione in concerto delle regole democratiche.

(*) agiovannini.it


di Alessandro Giovannini