
Non v’è alcun dubbio che la decisione del premier ungherese Viktor Orbán di farsi concedere i pieni poteri senza limiti di tempo contro la pandemia abbia suscitato e susciti preoccupazioni, timori e dibattiti.
L’emergenza, del resto, c’è in tutta l’Europa libera e democratica ed è in quanto tale, cioè con queste due garanzie ritenute indissolubili e indispensabili sotto qualsiasi regime che il tema della democrazia assume un valore tanto più grande quanto più, appunto, il pericolo mortale assume una generalità imponendo, di per sé, pieni poteri speciali.
Ma appaiono a volte curiose, nel nostro Paese, le critiche spesso dure, ad un Giuseppe Conte accusato di esercitarli in una situazione che richiede scelte rapide e non rinviabili. Ma un punto deve essere fermo per il Premier: l’obbligo e la indispensabilità della “maestà” del Parlamento. E, dunque, dell’opposizione che contribuisce all’insostituibilità dell’assemblea nel garantire la democraticità della scelte dell’esecutivo, ritenute esplicitamente e assolutamente temporali.
Perché questo è il punto più vero, la discrimine rispetto alla decisione del premier ungherese che assume pieni poteri non più a tempo ma sine die per fronteggiare un’epidemia che, peraltro, in Ungheria non è molto presente. Pieni poteri in questo senso liquidatori della “maestà” parlamentare, di un suo congedo anche questo sine die, in nome o col pretesto del maiora premunt insito nella gravità del momento.
Intendiamoci, l’urgenza degli interventi ha imposto e impone anche da noi un indubbio “scavallamento” dell’assemblea (Camera e Senato) con le sue prerogative di quei controlli per ora contratti, limitati e funzionanti a basso regime. A basso regime, non v’è dubbio, evidenziato anche dall’atteggiamento di Conte, per lunghe settimane, nell’ignorare l’opposizione che, nel suo diritto-dovere di critica, ha mostrato senso di responsabilità e di rispetto istituzionale e costituzionale con l’offerta di collaborazione che, comunque, non significa automaticamente voglia di grande coalizione ma, semmai, un’accoglienza positiva dell’invito del Quirinale per una coesione nazionale.
Un altro punto riguarda la possibilità o meno di ricorrere all’arma decisiva e democratica, da parte dell’opposizione, rappresentata dal ricorso anticipato alle urne e che Matteo Salvini ha sventolato quasi quotidianamente, con la stessa Giorgia Meloni, ma con il freno da parte di Forza Italia e dello stesso Silvio Berlusconi; freno che è in atto non tanto e non solo per un cambiamento degli atteggiamenti del Premier, ma per l’oggettiva impossibilità di quel ricorso impedito appunto dall’emergenza oltre che da un blocco, ormai storico, del nostro sistema.
Dopo l’emergenza se ne porrà un’altra, fra le tante, per un ricambio che avrà a che fare proprio con una democrazia per dir così bloccata, ma che non potrà non dare una risposta alla inadeguatezza di un governo frutto di un accordo fra forze che non sono maggioranza nel Paese, costituendo, a sua volta, un altro vulnus.
Il ricambio, insomma, ha come nemico da battere l’immobilismo, richiedendo dialettica e sistemi di controllo efficaci in un quadro nuovo, e i veri rischi, comunque, non potranno risiedere in una dittatura più o meno mascherata come in Ungheria, ma in un prosieguo di un pericoloso degrado al di là del necessario, non solo dell’emergenza ma della occupazione impropria del potere dovuta a mediocrità e incapacità.
Aggiornato il 02 aprile 2020 alle ore 13:38