I presupposti per ricominciare

L’ingenuo crede che, finita l’emergenza, si ritorni alla normalità con grande facilità.  Basta eliminare le nuove regole dell’emergenza, temporanee per loro stessa natura, e ripristinare quelle durature del passato.  In fondo, è necessario niente più che un semplice click dell’interruttore e si ricomincia alle condizioni di prima.  Purtroppo non è così.  Questa supposizione è sbagliata sempre e comunque, ma tanto più nel nostro amato Paese.

L’emergenza italiana nasce temporanea, ma, cammin facendo, muta i suoi connotati e diventa durevole, come i virus pandemici che diventano endemici.  Basta pensare che la legislazione emergenziale “antiqualcosa”, nata secoli fa in funzione antibanditismo, è arrivata fino a noi, passando dallo Stato sabaudo a quello unitario, e poi a quello fascista, e infine è approdata nell’ordinamento della prima, della seconda e della terza Repubblica, nelle varie guise di antiterrorismo, antimafia e ora anticorruzione.  Il vero interruttore da azionare in Italia per ripartire è proprio quello diretto a spegnere l’emergenza “antiqualcosa”.  E ne deve spegnere perfino le radici culturali.

Gli italiani devono poter vivere in condizioni di normalità, il cui postulato di fondo può essere enunciato in maniera molto semplice: “su questa terra è irraggiungibile la perfezione”.  Ne deriva che lo Stato non può e non deve proteggere il cittadino da tutte le insidie; che la tutela della salute non può spingersi fino all’illusoria “prevenzione” di ogni malanno; che l’esistenza dell’immancabile furbo non deve pregiudicare la libertà della persona corretta; che è pericolosa l’utopia del governo che elimina la povertà, figuriamoci quell’altra del governo che elimina la morte.  Gli assolutisti della “prevenzione” vogliono evitare tutti i contagi da coronavirus, imponendo gli arresti domiciliari a tutti gli italiani; ovviamente l’obiettivo ultimo non viene raggiunto, mentre viene perfettamente realizzato l’obiettivo mediato.  E dunque non sarebbe meglio una prevenzione mirata, piuttosto che la carcerazione generalizzata, nell’assunto necessario che qualche contagio non potrà essere evitato nell’un caso e nell’altro?

Il vero click dell’interruttore, necessario per far ripartire l’Italia, consiste nel rovesciare l’abusato slogan “non dobbiamo abbassare la guardia”, che mira a rendere perenne ogni emergenza nata come “temporanea”.  Al contrario: dobbiamo proprio abbassarla; è lo Stato che deve abbassare la guardia nei confronti del cittadino e avere fiducia nella sua libera iniziativa. A ben vedere, è proprio dall’esubero di funzioni “preventive” impropriamente affidate allo Stato che nasce il perenne rincorrersi delle emergenze italiane, le quali finiscono in una maniera o nell’altra col restringere la libertà individuale.  L’attuale vicenda del coronavirus ne fornisce la dimostrazione più lampante.  Abbiamo appreso che gran parte dei contagi è stata causata dalla mancanza di “mascherine” negli ospedali, le quali non potevano essere comprate in tempi rapidi per gli immancabili intoppi “burocratici”; e analogamente la protezione civile non poteva disporre con immediatezza le misure idonee a fronteggiare la pandemia, per i medesimi “intoppi”.  E poi si scopre che siffatti “intoppi” consistono, per esempio, nell’infinita sequela di passaggi e controlli preventivi lungo l’iter dei “bandi di gara” necessari per ogni acquisto. 

Ma infine: da dove vengono questi “intoppi”? Chi li ha voluti? Che cosa è questo cappio al collo dell’Italia, designato con la parola - neutra e in fondo benevola - “burocrazia”?  Chi vuole andare a fondo lungo la catena di causa-effetto,  arriva alla conclusione che la nuova “emergenza” è figlia della vecchia; che la burocrazia non è affatto neutra, bensì figlia della cultura politica di sinistra, la quale erige lo Stato a Supremo controllore del cittadino, di cui deve prevenire le malefatte.  L’anticorruzione paralizzante è parte integrante della cultura del sospetto, la quale giustifica sempre e comunque le restrizioni della libertà in nome dell’emergenza.  In questa logica, un’emergenza rincorre l’altra, proprio per le totalizzanti funzioni di controllo e “prevenzione”, esercitate dal Leviatano a un dì presso dallo Stato di polizia.  

Gli italiani hanno diritto di vivere oltre l’emergenza e al di fuori dell’emergenza.  Ciò significa mutare radicalmente i rapporti Stato-cittadino. E bisogna farlo fin d’ora. Gli aiuti necessari alle famiglie e alle imprese non devono essere erogati con i soliti criteri e parametri “burocratici”, ossia sulla base della cultura del sospetto.  I controlli sulla corretta erogazione dei fondi devono mirare a perseguire e sanzionare il furbo, non devono paralizzare la persona corretta, al solo scopo di prevenire il furbo.  Insomma, per capirci, lo Stato si deve fidare del cittadino, presumendone la correttezza fino a prova contraria, mentre oggi ne presume la scorrettezza fino a prova contraria.  Come nel dopoguerra, la libera iniziativa economica del privato potrà essere il motore della nostra rinascita, a condizione che lo Stato non la ostacoli col solito pretesto della necessità di “non abbassare la guardia”.

Aggiornato il 01 aprile 2020 alle ore 12:53