
Una caratteristica dei tempi bui è la privazione di orizzonte. L’oscurità non permette di misurare lo spazio che ci è davanti, né quello che ci è intorno. Al buio può capitare d’inciampare in un ostacolo non percepito. E cadere, anche rovinosamente. Il tempo del Coronavirus è un tempio buio per eccellenza. La visione del futuro è preclusa alla vista. Se non vediamo, non sappiamo cosa ci potrà accadere domani, o dopodomani. Nelle tenebre crescono le paure e le angosce. E cresce l’egoismo. Il “noi possiamo farcela” viene sopravanzato da un solipsistico “Io, speriamo che me la cavo”. L’assenza di luce causa il deperimento dei sentimenti positivi e l’ottimismo si scopre essere un esercizio retorico, rappresentato per sopperire al disperante senso d’impotenza dell’individuo nel non riuscire, in sostituzione di Dio, ad essere l’artefice dell’evento provvidenziale della propria salvezza. La percezione dell’abisso può essere devastante se viene meno la comprensione dei fattori determinanti per arrestare la caduta e per dare impulso alla risalita. Nella crisi non si può chiedere all’uomo della strada uno sforzo del nervo ottico superiore a quanto l’anatomia dell’organo della vista non gli consenta.
È per questo, invece, che esistono gli intellettuali. Si tratta di quella strana razza di soggetti, talvolta vanesi spesso insopportabili, che coltivano il dono speciale di vedere il futuro oltre l’oscurità, come fari accesi nella nebbia. Tra costoro spicca Giulio Tremonti, che sul tema: “Quale futuro dopo il Coronavirus?” ha rilasciato un’intervista illuminante a “Il Giornale”. L’ex ministro dell’Economia dei Governi Berlusconi incrocia un’involontaria sintonia con Aldo Giannuli. Lo storico, anch’egli intellettuale di vaglia, dalle pagine virtuali di “Formiche.net“, coglie nella crisi del contagio da Coronavirus il segno di uno snodo “epocale” che “indica esattamente qualcosa di atto ad identificare un’epoca o, ancora più precisamente, qualcosa che segni il passaggio da un’epoca all’altra. Ed è quello che sta accadendo”.
Per Giannuli tradurre le conseguenze scaturite dal tempo della crisi con espressioni generiche del tipo: “nulla sarà come prima” o che “tante cose dovranno cambiare”, non è sufficiente. La strada per comprendere il futuro passa per una ripresa di un metodo desueto: pensare storicamente. Che è poi l’angolo visuale scelto da Giulio Tremonti per “leggere” la crisi prodotta dalla diffusione del Coronavirus. Per aiutare a comprendere la funzione di sincope della Storia che il virus ha assunto, il “professore”, seguendo il metodo spengleriano, stabilisce un’analogia: il Coronavirus è come l’attentato di Sarajevo del 1914. Quest’ultimo, oltre che innescare il Primo conflitto mondiale, determinò la fine di un’epoca: la Belle Époque e con essa l’esaurimento della vecchia idea d’Europa concepita sulle dinamiche della società ottocentesca; parimenti il Coronavirus “pone fine al dorato trentennio della globalizzazione e al prodotto ‘illuminato’ di quella che è stata l’ultima ‘ideologia’ del Novecento, il ‘mercatismo’: l’idea che il divino mercato è tutto e fa tutto”.
Il tornante della Storia che, nostro malgrado, stiamo affrontando senza esserne preparati condurrà le società occidentali nel loro complesso a esplorare una terra incognita. Ricorderemo come eravamo, ma non sappiamo come saremo. A riguardo, Tremonti profetizza una palingenesi della libertà per effetto di una nemesi della tradizione liberale classica che si prenderebbe la rivincita sulle sue evoluzioni distorcenti, legate alla globalizzazione da un nesso di causalità: il “mercatismo” e il liberismo selvaggio. E tornerebbe lo Stato vindice dopo un trentennio di pensiero unico indirizzato all’adorazione del dio mercato e alla demonizzazione di tutto ciò che potesse richiamare la presenza statuale fuori del recinto vigilato della sussidiarietà. Soprattutto, termina la fase d’accelerazione incontrollata del tempo.
A giudizio di Tremonti negli ultimi decenni tutto è stato fatto frettolosamente, i cambiamenti non hanno avuto modo di sedimentare nell’idem sentire delle comunità ma si sono affastellati, sovrapponendosi, fino all’odierna esplosione. Per Tremonti il mondo liberale potrebbe ritrovare le sue tradizionali meccaniche, fatte di pesi e contrappesi. Come un orologio che “ha battuto il suo tempo per due secoli”. Non sarebbe un male, atteso che sulle medesime meccaniche è stato regolato il passo della democrazia parlamentare e delle Costituzioni d’impianto liberale. Il passato non ritorna uguale a prima. Ma l’idea che possa riaccendersi la speranza per una società a misura umana, dove la logica del profitto e del consumo cedano lo scettro al primato dei valori e dell’equilibrio materiale/spirituale delle persone e delle comunità, è entusiasmante. La frenata dell’avanzata commerciale e strategica del gigante cinese potrebbe segnare una distensione nei rapporti di forza tra potenze globali. Ciò richiederà la composizione di un nuovo ordine economico mondiale. E anche l’Unione europea, che in questi giorni si è frantumata smarrendosi nelle nebbie dei particolarismi degli Stati membri, dovrà ripensarsi dandosi nuove regole, architetture istituzionali aderenti a rinnovati equilibri di potere e più ambiziosi obiettivi unificanti se vorrà misurarsi alla pari con i grandi player internazionali. Perché, come ironizza Tremonti, “Ci sono due modi per stare al tavolo: seduti come commensali o scritti come pietanza sul menù...”. Ma quale Stato nazionale dovrà esserci dopo la fine della tempesta? Non la macchina statuale appesantita dalla farraginosità della burocrazia, ma una struttura amministrativa/gestionale snella. Come suggerisce Tremonti: “con modiche quantità di tecnica... e nulle quantità di comica”.
Checché ne pensi qualche nostalgico dell’ultraliberismo, di Stato c’è bisogno perché nello Stato c’è la politica. E le società complesse quali quelle dell’Occidente per essere governate necessitano della visione d’insieme che solo la politica può garantire. A patto però che vi siano politici in grado di fare il loro mestiere. Già, perché la palingenesi cancellerà il grande inganno del nostro tempo storico: l’onestà elevata a unico requisito richiesto al personale politico. Di gente onesta ma incapace le future generazioni non sapranno che farsene. L’onestà, che nella prassi si indentifica con lo pseudo-valore della “trasparenza”, non giustifica e non compensa il danno causato dall’incapacità a svolgere l’arte di governo della cosa pubblica, che è la missione del politico. E questi ultimi anni di grillismo al potere lo hanno ampiamente dimostrato. La pensiamo come Benedetto Croce: “La petulante richiesta che si fa della ‘onestà’ nella vita politica... (è) ... l’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli”.
Ma per riprendere il cammino dobbiamo prima superare la coltre di tenebra dei giorni di crisi. C’è un’emergenza finanziaria che segue quella sanitaria e anticipa quella sociale. All’alba del Terzo millennio in Occidente non c’è antidoto alla paura di massa di ritrovarsi alla fame e in povertà assoluta. La possibilità, in particolare nelle regioni storicamente depresse, di deviare verso forme inedite di ribellismo violento è tutt’altro che remota. Tuttavia, le ricette non possono essere strettamente economiciste. Vi sono momenti nei quali l’istanza di ricomposizione di una comunità su valori e fattori identitari condivisi ha la medesima forza propulsiva di una lotta per l’appagamento dei bisogni primari. Per venirne fuori tutti insieme, da comunità coesa, occorre non soltanto azionare catene di pensiero razionale ma anche inviare stimoli al punto del corpo fisico dove si concentrano sentimenti, pulsioni, emozioni. Lo si chiami cuore, la si chiami anima, ciò che conta è che anche quella parte di noi, che per i metafisici e gli esoterici è corpo sottile, si attivi per rispondere alla chiamata della Storia.
Aggiornato il 01 aprile 2020 alle ore 10:53