L’Italia in trincea

A chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.

Robert K. Merton, uno dei più autorevoli studiosi nordamericani del secolo scorso, prendendo a prestito questa frase del Vangelo di Matteo, dimostrò, nel 1968, come l’accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi fosse destinata, nel lungo periodo, a produrre conseguenze distruttive, poiché il divario tra i “giocatori” si sarebbe accresciuto a tal punto da determinare conseguenze simili ad una palla di neve fatta rotolare su una superficie inclinata.

Se smentire i santi è arduo, le perdite accumulate in questi giorni dalla borsa di Milano rendono difficile smentire anche Robert K. Merton. Non c’è dubbio, infatti, che alle spalle delle manovre borsistiche vi sia la risoluta volontà di togliere a “chi poco ha” per travasare una porzione abbondante di quella stessa ricchezza nei forzieri di “chi già molto ha”, siano essi fondi di investimento o stati sovrani. È un attacco concentrico ai nostri risparmi e ai nostri migliori asset economici. Con due obiettivi: speculare il più possibile con acquisti e vendite all'impazzata di azioni, obbligazioni e altre diavolerie della moderna finanza; assumere il controllo su settori strategici dell’economia italiana una volta terminata la fase di scarnificazione borsistica e di asservimento delle finanze pubbliche. Di questo si tratta: di una guerra portata avanti con strumenti non convenzionali.

Intendiamoci: il mercato ha le sue regole e anche l’esigenza, a un certo punto, di espungere titoli tossici, far scoppiare “bolle” finanziarie soffiate nel tempo, ma prive di aderenza all’economia produttiva, far cadere castelli di carta costruiti su catene infinite di titoli derivati, ossia sul nulla, di allineare i valori delle aziende alle mutate esigenze dell’economia di una nazione, e via dicendo. In queste circostanze le borse e più in generale il mercato fanno il loro lavoro, più o meno sporco, ma pur sempre rispondente a logiche interne al sistema capitalistico. Se si accetta questo tipo di economia, si devono per forza accettare anche le regole di riallineamento dei valori e formazione dei prezzi delle quali il capitalismo necessita per mantenersi in vita.

Scenario radicalmente diverso, invece, perché di guerra, si ha quando i grandi operatori finanziari - una quindicina in tutto il mondo - o alcuni stati dotati in proprio di molta liquidità, decidono di utilizzare la finanza e l’economia reale per fare guerra ad altri stati, quando cioè orientano le loro strategie a quel doppio fine che si è indicato prima: speculare con vendite e acquisti all'impazzata a danno di molti e specialmente di “chi poco ha”; prendere il controllo di settori strategici di una economia nazionale. Da noi, in queste settimane, sta accadendo anche e soprattutto questo.

E allora, se guerra deve essere, che guerra sia! Si combatta risolutamente con gli strumenti più idonei a tutelare i risparmi e i gioielli di “casa Italia”, e si risponda al fuoco nemico - e a quello falsamente amico - col piombo, non a salve.

Un piombo ancora a disposizione dei singoli Stati europei, compreso il nostro, è quello fiscale. Se il governo non vuole rimanere spettatore, può fare una cosa soltanto: frenare prepotentemente gli scambi contrastando il furore speculativo dei grandi fondi di investimento e le fughe in avanti degli stati esteri. Per far questo è necessario che renda sconveniente operare sui titoli italiani. E l’unica arma davvero efficace che può utilizzare in piena sovranità è, appunto, quella delle imposte.

Come si fa in tempo di guerra, il governo può e anzi deve introdurre tributi straordinari. La straordinarietà sta anzitutto in questo. Essi devono essere calibrati su operazioni che per ammontare e modalità di esecuzione testimoniano la volontà belligerante. E poi devono essere temporanei, durare qualche settimana o qualche mese e cioè il tempo necessario per far passare la veemenza della guerra. Finalmente, per garantire reale efficacia all'intervento, devono derogare alle regole ordinarie di determinazione dell’onore fiscale: da un lato, devono essere di entità quasi espropriativa dei guadagni speculativi, con aliquote elevatissime, individuando negli intermediari finanziari i soggetti responsabili del pagamento, come fossero dei sostituti d’imposta; dall’altro, devono prevedere la sospensione della regola, oggi in vigore, sulla deducibilità delle perdite di singole operazioni dai guadagni di altre e concomitanti operazioni.

Se lo scopo è quello di tutelare il risparmio e ostacolare progetti egemonici sulla nostra economia, non rimane che agire immediatamente. Dubito fortemente, però, che il governo in carica intenda mettere in campo politiche di questo genere. Le uniche, si ripete, davvero in grado di attenuare ragionevolmente le perdite alle quali stiamo andando incontro. E che saranno le nostre macerie!

Aggiornato il 19 marzo 2020 alle ore 12:35