Il Papa e il virologo

lunedì 16 marzo 2020


E dunque Papa Francesco ha riaperto le Chiese di Roma che pochi giorni fa erano state chiuse dal cardinale Vicario Angelo De Donatis.

Subito però, tempestivamente mobilitandosi a bacchettare il Papa per questa decisione, definita “una pessima idea”, è intervenuto il virologo Roberto Burioni, il quale ha infine chiosato: “Sono sicuro che Dio vuole che tutti preghino da casa”.

Ora, a prescindere dalla circostanza in sé assai interessante e della quale tutti siamo invitati a prendere atto, e cioè che Burioni conoscerà di sicuro il numero di telefono del Paradiso (tenuto da lui segreto e che neppure il Papa possiede), tanta è la sicumera con la quale egli, unico e solo in contatto diretto col Padreterno, rimprovera il Papa, credo si debba anche brevemente riflettere su un aspetto che forse Burioni pare aver dimenticato: e cioè che se Burioni fa Burioni – cioè il virologo – il Papa fa il Papa – cioè il vicario di Cristo in terra.

È infatti del tutto normale che il virologo voglia chiudere tutto il chiudibile – e perciò anche le Chiese – perché, al pari di cinema e discoteche, le considera semplicemente uno spazio di potenziale contagio, mentre il Papa, considerandole ontologicamente diverse da cinema e discoteche, voglia tenerle aperte per i fedeli: e ciò facendo non si pone per nulla in contrasto con i decreti governativi, i quali hanno proibito le funzioni religiose, ma non l’apertura delle Chiese.

Per Burioni, insomma, il Papa dovrebbe essere, per dir così, “più realista del re”, e spingendosi oltre i decreti del governo, dovrebbe chiudere anche le Chiese, che invece il governo permette di tenere aperte. Un Papa, insomma, “virologizzato”, questo forse vorrebbe Burioni, senza accorgersi di pretendere un po’ troppo: come se il Papa pretendesse un Burioni papalino.

Si ripropone allora qui, in forma diversa, la questione che avevo trattato pochi giorni or sono in un pezzo dal titolo “La fede inutile” e sulla quale conviene in breve tornare anche per arginare certi equivoci che ne sono sorti.

Quando ho denunciato che preti, suore e vescovi – pur in assoluta obbedienza alle norme vigenti – dovrebbero ricordare pubblicamente a tutti i fedeli che l’ostia consacrata non è una “cosa” in mezzo alle altre cose, per mezzo della quale sarebbe ovvio temere il contagio – non intendevo altro che rivendicare lo spazio della fede, da tener distinto – anche se con esso comunicante – dallo spazio della politica e della società.

Questo, d’altra parte, è il portato caratteristico e salutare della secolarizzazione, secondo la quale sacro e profano agiscono in ambiti distinti, ma necessariamente correlati (perché entrambi pongono al centro l’essere umano): e ciò senza che si ceda, per un verso, a pericolose forme di teocrazia (il Papa che vuol fare il Burioni ) o, per altro verso, a perniciose esperienze di cesaropapismo (Burioni che vuol fare il Papa).

Sicché debbo necessariamente correggere chi, leggendo le mie parole – ed evidentemente equivocandole in modo grave – mi abbia attribuito la surreale idea secondo la quale la distribuzione della Eucaristia potrebbe evitare il contagio o, peggio, l’ostia consacrata sia una sorta di pillola in distribuzione durante la Messa per guarire da una certa patologia.

Basta rileggere ciò che scrissi in quel pezzo, senza pregiudiziali ideologiche, per comprendere come simili idiozie mi siano del tutto estranee: e se le avessi anche lontanamente adombrate, sarei da rinchiudere alla neurodeliri.

Forse, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Io non ho scritto simili scempiaggini, ma – senza bisogno di scomodare la teologia – una riflessione del tutto diversa, invitando preti, suore e vescovi, coerenti alla propria vocazione, a rammentare al popolo dei fedeli non che l’Eucaristia va assunta come una compressa antivirale, ma che, assumendola, nella prospettiva della fede, il contagio va escluso.

Ovviamente, ciò è assurdo fuori dalla prospettiva di fede, perché, empiricamente, l’ostia consacrata rimane una “cosa” fra le cose, ma è propriamente questo che il prete non può fare in nessun caso: ritenerla “cosa” fra le cose. Ed è tenuto a ricordarlo a quanti se ne fossero dimenticati.

Infine, a titolo esemplificativo: se io dico che bere un bicchier d’acqua non causa il mal di gola, non sto affatto dicendo che bere un bicchier d’acqua sia una terapia per il mal di gola.

Confondere la prima affermazione con la seconda e, addirittura, come ha fatto qualcuno, pur dotato di eminente bagaglio culturale, risolvere quella in questa, significa aver gravemente equivocato entrambe, prendendo lucciole per lanterne, vittima ignara di un inavvertito ma esiziale salto logico: in sostanza, dar mostra di sapere tutto, ma senza capire nulla.

Aveva proprio ragione Orazio: “…indignor quandoque bonus dormitat Homerus…”.


di Vincenzo Vitale