Il fantasma dell’economia di Stato

C’è un fantasma che si aggira per l’Italia in queste giornate di profonda mestizia: il ritorno al “pubblico”. La tentazione di rinvigorire il modello dell’economia di Stato, per la verità, non è mai morta, ma nelle ultime settimane sta trovando nuova linfa sulla spinta emotiva della pandemia e, forse, della generosità della Repubblica popolare Cinese verso il nostro Paese. “Il pubblico è bello”, si sostiene qua e là. Lo dicono specialmente i partiti di sinistra e il Movimento 5 stelle, ma anche qualche esponente del Partito democratico e della destra sociale.

Tornare all’economia di Stato sarebbe scelta profondamente sbagliata. E non tanto perché i trattati europei impediscono aiuti di Stato e ostacolano l’intervento pubblico nell’economia, ma perché è errata l’idea in sé. La debolezza del nostro tessuto economico è palese: poche settimane di rallentamento della filiera produttiva, commerciale e dei servizi, come sta accadendo proprio in questo periodo, sono sufficienti a mettere in ginocchio l’intero sistema. Dall’altro lato, la finanza pubblica annaspa vistosamente per mettere insieme qualche decina di miliardi e non sa a quale santo votarsi per fronteggiare l’emergenza.

L’economia privata e pubblica e le finanze statali, insomma, non sono nelle condizioni di reggere lo stress di qualche settimana di rallentamento e neppure di soddisfare la necessità di investimenti pubblici straordinari, se non ricorrendo al debito. Pagliuzza? Direi una trave. Quali i motivi di questa debolezza strutturale? Perché, sia chiaro, di debolezza strutturale si tratta, che la pandemia ha bensì reso visibile, ma che da tempo alberga nei gangli del sistema socio-istituzionale. I motivi sono molti e alcuni di questi hanno radici antiche, che affondano nel terreno pre e postunitario. Ma ve n’è uno, più vicino, che è determinate. Negli ultimi cinquant’anni si è creato un vero e proprio cortocircuito all’interno dell’assetto sociale, economico e istituzionale. Provo a spiegarmi.

Le componenti principali di questo assetto, in generale, sono tre: da un lato, le classi, i ceti, i gruppi d’interesse, le organizzazioni sociali e il mercato con le sue regole; dall’altro, le istituzioni politiche, il Parlamento, il Governo, i partiti; infine, le istituzioni economiche e sociali, come le banche, le industrie, gli istituti di ricerca e il sistema d’istruzione. Queste componenti devono essere in asse tra loro: se una di esse sopraffà le altre o arretra rispetto alle altre, il sistema va fuori squadra e alla fine implode, non regge a se stesso e alla concorrenza internazionale, non tiene il passo dell’innovazione tecnologica e men che meno riesce ad incrementare la produttività. Se le istituzioni politiche prevalgono su tutte le altre componenti, il sistema finisce per identificarsi nello Stato, sia nel caso in cui sia esso stesso a incarnare il capitalismo d’impresa, sia nel caso in cui esso si limiti ad assistere il capitalismo privato con sussidi in denaro.

Ora, il capitalismo di Stato può senz’altro aiutare i Paesi arretrati nella transizione verso un’economia industriale e senz’altro si conforma a regimi nei quali la libertà d’impresa non esiste o è solo apparente. Ma se gli interventi delle istituzioni politiche si prolungano o diventano addirittura interventi di “ritorno”, oppure se le stesse istituzioni si trasformano in azionisti occulti delle imprese private, la crescita non può che uscirne danneggiata. Danneggiata mortalmente. Le istituzioni politiche divengono, come le definiscono alcuni studiosi, “istituzioni estrattive”, vale a dire soggetti che si limitano a estrarre risorse dalle pubbliche finanze e a distribuirle alle imprese da loro direttamente gestite, oppure a imprese private, delle quali le medesime istituzioni non sono altro che finanziatori o, come detto, soci e amministratori occulti.

In altre parole, le istituzioni diventano, puramente e semplicemente, centri di spesa assistita. Il sopraffare dell’istituzione politica, in un’economica capitalistica di libero mercato e di mercato globalizzato, fa uscire dall’asse tutti i componenti socio-istituzionali che reggono il sistema e che devono concorrere al suo sviluppo. Ecco: vagheggiare il ritorno dello Stato nell’economia vuol dire perpetuare il male dell’Italia: l’assistenzialismo. Un vizio, dunque, non una virtù.

Aggiornato il 16 marzo 2020 alle ore 11:50