Perché Conte dovrebbe fare la fine di Chamberlain

Un virus è un microrganismo non percepibile alla vista. Per osservarlo c’è bisogno del microscopio. Eppure, un’entità infinitesimale dà riparo a una maggioranza politica composta da un gran numero di parlamentari. Succede al Coronavirus. Si dice che sia un microrganismo sconosciuto contro cui l’individuo non riesca a produrre anticorpi per impedire di esserne infettato. Al momento non esistono vaccini per debellarlo. In compenso, è stato il temuto virus a secernere una sostanza in grado di fornire difese immunitarie all’uomo. Non a tutto il genere umano ma ad un uomo soltanto: Giuseppe Conte. A lui il virus assicurerebbe il posto a Palazzo Chigi.

Ovvio che non vi sia alcuna evidenza scientifica che autorizzi il premier a ritenersi intoccabile. È piuttosto una follia partorita da un mondo che viaggia alla rovescia. Al riguardo, l’assioma in base al quale, imperante il Coronavirus, il Presidente del Consiglio e la squadra dei ministri sia inamovibile ci manda fuori di testa. Perché mai non si potrebbe cacciare, nel mezzo di una crisi, un Governo confusionario, indeciso su tutto, che ha inguaiato l’Italia agli occhi del mondo a causa di una disastrosa strategia di comunicazione?

Winston Churchill, il 13 maggio 1940, prese il posto di Arthur Chamberlain alla guida della Gran Bretagna, dopo che questi era stato dimissionato in malo modo dal Parlamento nel momento più critico del conflitto con la Germania nazista. Le cronache dell’epoca diedero grande risalto alle parole del deputato Leo Amery che nel suo discorso per la sfiducia al Primo ministro Chamberlain, parafrasando Oliver Cromwell, esclamò: “Siete rimasto seduto troppo a lungo, quale che sia il bene che avete fatto. Andatevene, vi dico, e liberateci dalla vostra presenza. In nome di Dio andatevene!”.

Bisognerebbe che qualche politico dell’opposizione annotasse questa ruvida esortazione, magari per tirarla fuori al cospetto di Giuseppe Conte al momento debito.

Se Chamberlain era rimovibile nel momento in cui sull’Inghilterra piovevano dal cielo le bombe naziste sarà lecito, e non blasfemo, sperare che il Conte bis tolga le tende al più presto? Non ne facciamo una questione di bottega partitica. L’epidemia sta mettendo al tappeto il morale degli italiani creando un clima da sospensione della vita collettiva che non si sa per quanto possa reggere. Nel contempo, a finire in ginocchio è il sistema economico. Per come si sono messe le cose e per il vuoto che gli altri Paesi ci stanno facendo intorno, come se fossimo gli untori del mondo, il contraccolpo sulla capacità produttiva nazionale non sarà lieve e, soprattutto, non sarà reversibile nel breve periodo. Ci vorranno anni per rimediare al danno reputazionale che si sta abbattendo su intere filiere produttive.

La crisi è tale che da solo il settore privato non ce la farà a rialzarsi. Occorrerà che intervenga lo Stato in forma massiccia per rimettere in moto l’economia. E non certo con quei quattro spiccioli promessi dal Governo in queste ore. Non servono pannicelli caldi, serve uno shock di rilevanti dimensioni economiche e normative per riavviare la macchina produttiva. Qui bisogna intendersi. Ci sono almeno due modi per affrontare la crisi: o lo Stato decide di distribuire risorse a pioggia per garantire sostegno finanziario alla popolazione in sofferenza, quindi  welfare, puntando a riattivare il ciclo dei consumi interni, oppure sceglie di concentrare liquidità sull’implementazione di un grande piano d’investimenti in opere pubbliche destinato principalmente all’ammodernamento infrastrutturale.

Nella prima ipotesi si tratterebbe di realizzare una sorta di “Helicopter money” da tempi di guerra, con una consistente erogazione di risorsa finanziaria, per un tempo circoscritto, agli operatori economici e alle famiglie colpiti dagli effetti finanziari del Coronavirus. Chi governa verrebbe gratificato da un immediato ritorno di popolarità: mettere i denari in tasca alla gente ha sempre un certo appeal. Tuttavia, nel lungo periodo, una tale linea di condotta potrebbe determinare una crescita incontrollata dell’inflazione. Il che non è concettualmente possibile, essendo l’Italia saldamente inserita nell’area Euro. Una tale manovra non le sarebbe consentita. Al più, dovrebbe essere promossa e guidata dalle autorità centrali europee. Che è utopico, attesa la sensibilità della maggioranza dei Paesi membri della Ue al controllo rigoroso delle politiche in deficit dei singoli Stati. Nel secondo caso, la strada si presenta impervia perché le grandi opere richiedono anni prima di essere rese fruibili alle famiglie e alle imprese. Nel frattempo, l'opinione pubblica non ha l’immediata percezione che si stia facendo qualcosa di utile per il benessere generale e finisce col prendersela coi governanti per il loro apparente immobilismo. È vero, però, che l’apertura dei cantieri comporti assunzione di manodopera e, per conseguenza, la diminuzione del tasso di disoccupazione e un alleggerimento dei costi pubblici degli istituti di sostegno al reddito delle persone e delle famiglie. Sarebbe, quindi, auspicabile che un governo coscienzioso, con un minimo di vista lunga e di coraggio, puntasse sulla seconda modalità piuttosto che sulla prima. Tradotto: tutto in investimenti, meno in assistenza.

A fare tale scelta dovrebbe essere l’odierno Esecutivo demo-penta-renziano. Che è fantapolitica. L’attuale combinazione che tiene insieme la maggioranza parlamentare è retta da due partiti, il Partito Democratico e il Cinque Stelle, che incarnano due differenti rigidità. I Cinque Stelle sono la quintessenza dell’assistenzialismo pubblico. La loro battaglia della vita è stata introdurre il Reddito di cittadinanza. Per altro verso, i grillini sono geneticamente allergici alle Grandi opere. Non ne vorrebbero nessuna. Hanno dovuto ingoiare la costruzione del tratto dell’Alta velocità ferroviaria Torino-Lione, come il varo o la prosecuzione di altre opere strategiche per il Paese, con la medesima gioia con la quale si possa bere un calice di cicuta. I “dem”, invece, sono malati di un male inguaribile: l’iperburocratismo della Pubblica amministrazione. Benché fingano d’ignorarlo è stato un loro Governo a varare il mostro del Codice degli appalti, il cui unico obiettivo raggiunto è stato di rendere un inferno la vita alle imprese che lavorano per la Pubblica amministrazione.

Un programma straordinario d’investimenti sulle Grandi opere per essere efficace deve avere tempi di realizzazione strettissimi, quindi si dovrebbe preventivamente disboscare il percorso burocratico che rallenta qualsiasi iniziativa economica, a maggior ragione se realizzata a valere su risorse dello Stato. Non è nel Dna dei “piddini” rendere la vita facile a chi fa impresa, per cui mai potrebbero accettare di snellire le procedure, con il fantastico risultato di ritrovarsi tra qualche decennio a disquisire sul come e sul quando riedificare le infrastrutture del Paese. Tali caratteristiche, proprie dei due partiti-pilastri del Conte-bis, rendono materialmente inadatto l’odierno Esecutivo alla gestione della fase straordinaria di rilancio economico. Occorre che altre forze partitiche, se ci sono, guidino il dopo-Coronavirus. Occorre che siano gli italiani a decidere quali debbano essere queste forze. Ecco perché Giuseppe Conte e compagni devono piantarla di nascondersi dietro il virus e affrontino la realtà. Che non ha alcuna intenzione di arridergli.

Aggiornato il 05 marzo 2020 alle ore 13:14