
Matteo Salvini coglie l’attimo fuggente. Il premier Giuseppe Conte vive un pericoloso stato confusionale che lo rende inadeguato a fronteggiare le ricadute economiche negative del Coronavirus, così il leader leghista ne profitta e tenta la spallata. È la mossa del cavallo. Contraddicendo una sequela di “mai con loro”, riferita ai protagonisti del campo progressista, Salvini va dal Presidente della Repubblica a offrire la disponibilità della Lega a un Governo di “larghe intese” della durata di otto mesi allo scopo di portare il Paese fuori dalla crisi.
La premessa, di quella che si annuncia una spericolata capriola tattica, è fondata. La Lega si fa portavoce del grido d’allarme lanciato da tutte le categorie produttive che, a pochi giorni dalla dichiarazione dello stato d’emergenza, già fanno la conta dei danni. Che sono straordinariamente ingenti. Interi comparti, quali il turismo, l’alta moda, la meccanica e l’agroalimentare denunciano gravi cali produttivi ma ancora recuperabili se l’allarme sanitario cessasse nel giro di qualche settimana. Nel caso del protrarsi della fase emergenziale le perdite non sarebbero più riassorbibili e la crisi, in futuro, si cronicizzerebbe per effetto di un crollo della tenuta degli assi commerciali consolidati con gli interlocutori esteri. I tradizionali buyers del “Made in Italy” potrebbero alla lunga cambiare partnership, come accadde con la Federazione Russa a seguito dell’introduzione delle sanzioni varate dall’Unione europea contro Mosca in risposta all’aggressione all’integrità dell’Ucraina. Ciò che terrorizza le imprese italiane è che, tornati a produrre a pieno regime e sbloccate le catene distributive, l’offerta potrebbe non incrociare più la domanda perché quest’ultima verrebbe indirizzata altrove. Anche il miraggio dell’attrazione d’investimenti esteri sul nostro territorio, generato dalla sottoscrizione con il Governo cinese del progetto “Belt and Road Initiative” (La via della seta), è a rischio di naufragio visto che le autorità di Pechino devono concentrare gli sforzi finanziari per rimettere in piedi la propria economia danneggiata dallo tsunami Coronavirus, insorto in casa loro. Poi, la demenziale decisione del Governo Conte bis di bloccare (solo) i collegamenti diretti tra l’Italia e la Cina non ha reso certo felici i capi cinesi che non mancheranno di farcela pagare a tempo debito.
In uno scenario tratteggiato a tinte fosche la previsione di finire in recessione nel 2020 è più di un presagio di sventura. Per rimettere il treno Italia, appena deragliato, sui giusti binari occorrerebbe uno sforzo collettivo che non ammette divisioni ideologiche né opportunismi partitici. Non può farlo il Governo in carica, avendo dimostrato nei fatti la propria insipienza nella gestione della crisi. Su questo presupposto, rappresentato dal leader leghista all’inquilino del Colle, nasce la soluzione del licenziamento in tronco del Conte-bis e la creazione di un Governo di unità nazionale sostenuto da tutte le forze presenti in Parlamento. La giocata è astuta, ma irrealizzabile. Il sospetto è che Salvini l’abbia lanciata nella certezza di sentirsi rispondere un secco no dagli altri partiti. Un rigetto della sua offerta, in apparenza generosa, gli consegnerebbe di presentarsi all’opinione pubblica da vittima dell’altrui avidità. Il “Capitano” potrebbe legittimamente asserire di essersi impegnato a privilegiare l’interesse nazionale sui calcoli di bottega ma di essere stato tradito dalla sete di potere della sinistra e dei Cinque Stelle, bramosi di tenersi le poltrone fregandosene del bene dell’Italia. Tuttavia, potrebbe capitare che i chiamati in causa, subodorando il bluff del “Capitano”, decidano di andare a vedere il punto, come si dice al tavolo del poker. Allora, la proposta-shock potrebbe rivelarsi un boomerang micidiale per il leghista. Trovarsi ingabbiato in un Governo del (quasi) tutti insieme appassionatamente, con un premier che non sarebbe il desiderato (da Giancarlo Giorgetti) Mario Draghi ma un uomo del Presidente Sergio Mattarella, con una serie di “tecnici” scelti a propria immagine dal Quirinale, legherebbe le mani al mago delle campagne elettorali al quale verrebbe meno il bersaglio contro cui dirigere il proprio potenziale polemico. La Lega rischierebbe la medesima sorte che fu, nel 2011, del Partito Democratico quando il segretario Pier Luigi Bersani, rinunciando ad urne facili per il Pd dopo il proditorio defenestramento di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi, accettò di appoggiare il Governo del “Commissario” Mario Monti. La conseguenza fu che alle Politiche del 2013 il Pd non vinse come avrebbe potuto appena l’anno prima.
L’idea di un accordo che includa tutti è utopia. La prima a prenderne le distanze è Giorgia Meloni. Il suo ragionamento non fa una grinza: perché mai un partito in crescita di consensi, che ha fatto della lotta agli inciuci di Palazzo il proprio brand, dovrebbe gettare tutto alle ortiche per ritrovarsi a svolgere un ruolo marginale in un incommestibile minestrone partitico? Salvini non ignora che se si accordasse con i nemici, rompendo con la Meloni, subirebbe una perdita di consensi a beneficio di Fratelli d’Italia. E Salvini, com’è noto, è tutto ma non uno stupido. Non finisce qui. Ci sono i grillini da considerare. Perché dovrebbero accettare di perdere le bandierine piazzate su Palazzo Chigi e su molti ministeri strategici e sostenere un’alternativa che di fatto li taglierebbe fuori dalla presa egemonica sul Governo? Paradossalmente, ne guadagnerebbero di più a riconquistare gli scanni dell’opposizione, magari con un nuovo leader più attrezzato ad agitare le piazze come, ad esempio, un redivivo Alessandro Di Battista.
A poterci stare per convenienza potrebbero essere quelli del Partito Democratico e Matteo Renzi, sebbene per opposte ragioni. Al Pd importa esclusivamente di mantenere le posizioni di potere acquisite con la manovra di Palazzo che ha partorito il Conte-bis. Considerata l’ampiezza della sua classe dirigente, dentro e fuori il perimetro dell’organizzazione partitica, non sarebbe un problema per Nicola Zingaretti il chi mandare al Governo. L’intercambiabilità di politici con tecnici organici alla linea del partito è tale da non impensierire il vertice “dem” per il quale vale la regola del “cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia”. E per Zingaretti, come per tutti i suoi predecessori, tecnici e dirigenti di partito sono addendi, ciò che conta è che la somma non cambi. Per Renzi un capovolgimento di scena sarebbe salutare. Dopo essere stato l’artefice del coup de théâtre che ha portato, lo scorso agosto, il Pd all’accordo con i Cinque Stelle, il “Rottamatore” è stato messo da parte dagli alleati. Lo sa lui, lo sanno i suoi che l’hanno seguito nell’avventura di “Italia Viva” e se ne è accorto l’elettorato che, non a caso, non lo premia nelle intenzioni di voto. Renzi ha quindi bisogno di sparigliare il gioco per tentare di rientrarvi in uno schema più allargato che lo sottragga allo schiacciamento sotto la pressione mortale dell’abbraccio tra i “dem” e i Cinque Stelle. Per quanto appaia bizzarro, la sopravvivenza politica del senatore di Scandicci dipenderebbe dal sacrificio autolesionista del suo arcinemico, l’altro Matteo.
Di Forza Italia non parliamo, per spirito di misericordia. Al partito di Berlusconi, al momento, andrebbe bene tutto pur di tenere insieme i cocci scheggiati di una grande storia politica e umana ormai tramontata. Ad un partito somigliante alla sala d’aspetto di una stazione ferroviaria affollata di gente con le valigie in mano intenta a scrutare il tabellone delle partenze, potrebbe calzare l’espressione cameratesca in voga un tempo negli acquartieramenti di cavalleria a proposito dell’approccio al gentil sesso: “Purché respiri”.
Aggiornato il 02 marzo 2020 alle ore 10:38