Riforme serie e toppe a colori: sulla Giustizia penale

Sono decenni che il Paese non ha riforme di sistema, ma solo toppe spacciate per riforme. Toppe dai colori sgargianti, intendiamoci, ma buone soltanto per qualche titolo di giornale o comparsata televisiva dei politici di turno. Niente di organico, che faccia parte di un’architettura progettata con rigore. Ho scritto altre volte (da ultimo, su L’Opinione, La politica senza pensiero e la speranza del buongoverno) che l’assenza di architettura non discende tanto dalla mancanza di risorse finanziarie, quanto e soprattutto dalla pochezza della visione politica.

I recenti interventi sulla giustizia penale lo dimostrano in termini inoppugnabili. Da mesi si discute sulla prescrizione dei reati: abolirla, allungarla, spezzettarla o differenziarla. La toppa voluta dal Movimento 5 Stelle, ossia interrompere sine die la prescrizione dopo il primo grado per evitare gli effetti della eccessiva durata dei processi, è un obbrobrio: Leopoldo II di Toscana, che per primo al mondo, nel 1786, abolì la pena di morte, sta implorando il Padre eterno di rimandarlo su questa terra per consentirgli di combattere la legge Bonafede. E lo sta implorando per cimentarsi anche in un altro tentativo: impedire l’approvazione del progetto targato Partito Democratico, in discussione in queste ore. La prescrizione, per i democratici, si dovrebbe sì interrompe dopo il primo grado, come già prevede la legge pentastellata, ma soltanto se vi è condanna.

La seconda toppa, quella del Pd, è peggiore della prima e la sua stortura sta in questo: considerare il condannato in primo grado come un “presunto colpevole al quadrato”, anziché, come giustamente vuole la Costituzione, sempre e in ogni caso un presunto innocente, quale che sia l’esito - di assoluzione o di condanna - dei processi “intermedi”, fino alla sentenza di ultimo grado.

Le toppe, lo sappiamo, sono una sorta di rammendo, ma non consentono di tessere una nuova trama e un nuovo ordito: il tessuto rimane bucato e il buco è solo la manifestazione della sdrucitura del tessuto. È indiscutibile che il processo penale abbia molti buchi e che uno di questi sia, proprio, l’eccessiva durata. Le toppe, però, non solo possono aggravare il problema, e alcuni procuratori generali, in questi giorni, parlando della riforma Bonafede, lo hanno detto a chiare lettere; ma non sono senz’altro in grado di intrecciare una nuova tela. Proprio quello, invece, che occorre alla giustizia penale.

Quali, allora, le misure di una vera riforma? Le direttrici sono tre: strutturale, normativa e organizzativa. La prima ruota intorno alla separazione delle carriere tra accusatori e giudicanti, alla riforma del sistema di reclutamento, con vincoli di specializzazione per materia, e alla revisione della disciplina sulla responsabilità civile, erariale e disciplinare dei magistrati e dei futuri procuratori. La seconda direttrice, quella normativa, passa da una profonda depenalizzazione delle violazioni, sulla falsariga di quella compiuta nel 1981, e da una nuova codificazione, con contestuale riscrittura dei molti reati oggi lasciati alla libera interpretazione di procure e tribunali. E poi, sul piano organizzativo, sono indispensabili la revisione degli organici, compresi quelli dei cancellieri, l’introduzione di manager esterni alla magistratura per massimizzare l’efficienza di procure e tribunali, e la completa digitalizzazione dei procedimenti.

Al futuro ministro della Giustizia che semmai volesse intestarsi queste o altre misure di riforma sistematica un grande, grandissimo augurio: “Che Dio ti salvi dalla guazza e dagli assassini”. Parola di Grillo Parlante, parola di Carlo Lorenzini, in arte Collodi. Della stessa terra del Granduca Leopoldo.

Aggiornato il 05 febbraio 2020 alle ore 11:25