
L’azione penale, si sa, è obbligatoria. Nel senso che se un magistrato viene a conoscenza di un reato non può evitare di intervenire avviando una iniziativa giudiziaria.
La ragione della obbligatorietà dell’azione penale è nella indipendenza e nella autonomia della magistratura. Nelle ere antiche dei sistemi assolutistici i magistrati erano il braccio armato del potere e ne erano i più stretti e fedeli dipendenti. Le costituzioni liberali spezzarono questo legami di dipendenza stabilendo che lo stato di diritto si fondava sulla ripartizione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario. Per cui l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario comportavano automaticamente l’obbligatorietà dell’azione penale.
Con il passare del tempo, però, si è verificato un singolare fenomeno. La conoscenza dei reati da parte dei pubblici ministeri è diventata sempre più soggettiva. Con la conseguenza che l’obbligatorietà si è trasformata in facoltà. Cioè nella possibilità di ogni Pm di avviare l’azione penale sulla base della propria fonte di conoscenza del reato. Per cui se un magistrato legge solo “Il Fatto” avvierà l’azione penale contro i presunti colpevoli indicati dal giornale e si specializzerà in lotta alla corruzione. Se invece si informerà su “L’Avvenire” diventerà un campione della lotta al cattivismo anti-immigratorio. E se si abbevera di informazione solo su “la Repubblica” moltiplicherà al Parlamento le richieste di processare Matteo Salvini, colpevole sostanzialmente di esistere!
Dallo stato di diritto allo stato dei dritti!
Aggiornato il 04 febbraio 2020 alle ore 10:42