Forza Italia: niente liscio, solo tarantella

giovedì 30 gennaio 2020


In politica non contano solo le parole. Molto si trasmette attraverso la comunicazione non verbale, fatta di azioni, posture, sguardi, gestualità, silenzi che in particolari circostanze possono essere più eloquenti di tanti accalorati discorsi. Si prenda il caso all’ordine del giorno nella polemica sulle Regionali per l’Emilia-Romagna. Non sono pochi i commentatori che si avventurano nell’ardita tesi di un Matteo Salvini sconfitto a causa dell’improvvida citofonata al presunto spacciatore del quartiere Pilastro di Bologna, mandata in onda a reti unificate. A riguardo, siamo piuttosto scettici verso interpretazioni semplicistiche volte a caricare un solo gesto, per quanto sbagliato e sopra le righe, della responsabilità di un mancato successo. Che poi tale non è stato, visto il grande risultato conseguito dalla Lega su un terreno di confronto oggettivamente ostile.

Tuttavia, a voler dare credito ai sezionatori in quattro del capello, vi è stata un’altra immagine che, a nostro avviso, potrebbe spiegare, seguendo la teoria del cimiero che schianta il destriero, il tracollo di Forza Italia nella regione “rossa”. Si tratta di un video che riprende un’euforica tarantella ballata dalla neo governatrice della Calabria, Jole Santelli, con alcuni dirigenti forzisti accorsi a Cosenza per festeggiarla. Tra i partner ballerini che compaiono nel video si scorge il vicepresidente del partito, Antonio Tajani. Potrà sembrare eccessivo, ma reputiamo che quel fotogramma abbia proiettato un segnale negativo sul popolo forzista di non minore impatto di quello dell’esagitato Salvini, beccato al citofono del presunto spacciatore. Intendiamoci: non c’è nulla di male a festeggiare in allegria una vittoria elettorale, ma non quando si ha la veglia di un defunto alla porta accanto. La neo governatrice aveva tutto il diritto di scatenarsi dopo giornate di tensione al calor bianco.

Ma il vicepresidente di Forza Italia almeno avrebbe dovuto indossare una fascia nera al braccio in segno di lutto per il disastro emiliano-romagnolo. Un comportamento incomprensibile, a meno che non sia in atto una virata strategica di Forza Italia. Una sorta di percorso all’incontrario rispetto a quello compiuto dalla Lega: passare da partito nazionale a espressione dei territori del Mezzogiorno d’Italia, con ciò scegliendo di abbandonare il Nord ad altre componenti della destra ad eccezione di qualche isola elettorale da salvaguardare in Lombardia, in Piemonte e nel Ponente ligure. Già, perché a osservare da vicino i dati delle regionali emiliano-romagnole il sospetto è forte. A prescindere dalle percentuali che, legate agli andamenti dell’affluenza alle urne, possono trarre in inganno, si guardino i numeri assoluti. Domenica il partito di Silvio Berlusconi ha raccolto 55.317 preferenze in tutta la regione.

Un dato devastante se lo si compara a quello delle precedenti regionali del 2014 dove Forza Italia conseguì 100.478 voti, ma con una partecipazione di elettori di quasi la metà rispetto a quella registrata domenica: 67,67 per cento degli aventi diritto oggi, 37,71 per cento nel 2014. Non soccorrono le analisi sociologiche per giustificare la débâcle. Neppure le leggende metropolitane sulle fughe dei mitici moderati verso altri lidi. Anche qui c’è una bella contraddizione in coloro che sostengono, per un verso, che Salvini abbia messo in fuga i moderati, per l’altro, che i voti in uscita da Forza Italia sarebbero andati alla Lega e a Fratelli d’Italia. Ma non erano Salvini e Giorgia Meloni i Babàu degli elettori moderati? I numeri raccontano una storia differente. Fino alla tornata elettorale delle Europee nel 2019 Forza Italia, in Emilia-Romagna, è rimasta in buona salute rispetto al declino registrato su scala nazionale.

Nelle urne dello scorso anno gli emiliano-romagnoli hanno consegnato al partito di Berlusconi un consenso pari a 131.992 voti, seppure in calo rimarchevole rispetto al dato delle politiche per la Camera dei deputati, dell’anno precedente, giunto a 251.732 preferenze. Com’è stato possibile perdere per strada circa 77mila voti nel volgere di appena otto mesi? Tanto più che, in complesso, la coalizione della destra plurale, pur non vincendo, ha ridotto il distacco dal centrosinistra a 2,71 punti percentuali (destra plurale 45,51 per cento; centrosinistra 48,12 per cento). Un piccolo miracolo se si compara con lo scarto registrato alle precedenti regionali del 2014 dove il centrosinistra totalizzò il 49,69 per cento contro il 29,70 dell’allora centrodestra. Provare a impiccarsi alle tendenze del ceto medio garantito delle grandi città equivale a una perdita di tempo.

La ragione della disfatta di Forza Italia è più banale, e più cruda, di ciò che si voglia far credere. Gli apparati del partito hanno smobilitato. Se è vero che sia mancato l’impulso che solo Berlusconi in persona riesce a imprimere alle campagne elettorali forziste, è a maggior ragione vero che la macchina elettorale non ha girato come avrebbe dovuto. Ovunque nelle circoscrizioni il consenso si è dimezzato rispetto al 2019 ma in una provincia i risultati sono stati pazzeschi: quella di Piacenza.

Eppure, il piacentino di tutte le aree emiliano-romagnole è quella più “lombarda”, a causa delle caratteristiche del tessuto economico-produttivo. Non è un caso se, nei report congiunturali sullo stato dell’economia, gli analisti mettano in linea i numeri di Piacenza con quelli delle lombarde Lodi, Pavia e Cremona piuttosto che con le altre province emiliano-romagnole, segno di una vocazione distrettuale naturale che esiste a prescindere dalle differenti appartenenze amministrative. Il settore manifatturiero piacentino, a dati 2018, ha registrato andamenti positivi in tutti gli indicatori, in linea con la media regionale, ad eccezione degli ordinativi esteri “in calo a Piacenza dello 0,4 per cento contro un aumento medio in Emilia-Romagna dell’1,3 per cento” (Rapporto congiunturale Unioncamere, giugno 2019). Il sistema imprenditoriale piacentino ha subìto nel 2018 una contrazione dello stock d’imprese.

Al 1° gennaio 2019 quelle attive censite sono state 29.421, di cui 8.101 artigiane. Significativa la dinamica evolutiva di un numero di ditte individuali e società di persone che si sono trasformate nel corso del 2018 in società di capitali. Il tasso di disoccupazione della provincia per il periodo analizzato è sceso al 5,6 per cento dell’universo della forza lavoro. Di là dalle problematicità, Piacenza è un habitat ideale per l’offerta politica di un partito pro-impresa quale Forza Italia. Eppure, domenica scorsa la lista forzista ha raccolto nella circoscrizione piacentina 3.691 voti, contro i 10.707 delle Europee del 2019. Considerando i quattro candidati di lista, la media di apporto di ciascuno di loro è stata di 922 preferenze. Per una competizione di carattere regionale sono lo standard di traino di una lista minore.

Qual è stato l’ordine impartito dal quartier generale forzista? Abbandonare l’Emilia-Romagna all’alleato leghista o il rompete le righe? Non c’è nulla di male a fare una scelta di arroccamento in un’area circoscritta del Paese, purché lo si comunichi al proprio elettorato. Cosa attendersi per le prossime scadenze elettorali? Una “Forza Sud” che grazie all’apporto determinante della Lega faccia il pieno di seggi e governatori nel Meridione? E per fare cosa? Per ripetere i medesimi errori che in passato hanno consentito alla sinistra di riprendere il comando del Meridione dopo parentesi del tutto insignificanti di amministrazioni di centrodestra? Se questo è il motivetto che fa da sfondo alla tarantella inscenata lo scorso lunedì in Calabria, è concreto il rischio che altri elettori lascino Forza Italia ballare da sola. E a quel punto il citofono di Salvini sarà l’ultimo dei passi falsi di cui rammaricarsi.


di Cristofaro Sola