Luigi Di Maio: come muore una stella

giovedì 23 gennaio 2020


Luigi di Maio non è più il capo del MoVimento Cinque Stelle. Si è dimesso ieri. Lo ha fatto in forma solenne in occasione della presentazione dei cosiddetti “facilitatori” regionali del grillismo, pronunciando un discorso “alto” nel metodo e nei toni ma carico di contraddizioni. E di qualche ingenuità. In questo momento, indubbiamente difficile pe l’uomo Di Maio, non lo si deve deridere ma riconoscergli l’onore delle armi come si fa con i nemici sconfitti. Già, perché quello del giovane napoletano salito forse troppo rapidamente agli onori delle cronache della politica nazionale, è stato il discorso della sconfitta. Di Maio, pur rivendicando le molte cose fatte dal MoVimento dall’ingresso nelle istituzioni, racconta la storia di un fallimento. Che, però, il leader che tramonta, in una ricostruzione inverosimilmente priva di autocritica, non ha il coraggio di prendere su di sé ma preferisce scaricarne la responsabilità sui falsi amici interni: i traditori (è così che li ha chiamati), gli opportunisti che non avrebbero saputo fare altro che scavare la fossa ai compagni di strada che stavano in prima linea a lottare per cambiare il Paese nel profondo.

Di Maio descrive il 5 Stelle come un verminaio, confermando le ricostruzioni giornalistiche che tracciavano uno scenario devastante della creatura politica di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Coloro che hanno preso le distanze dal MoVimento in dissenso con la linea politica seguita o con i modi “stalinisti” di gestione dei rapporti interni all’organizzazione sono stati trattati malissimo da Di Maio: “Erano quelli che stavano nelle retrovie senza prendersi responsabilità, per venire al fronte solo per pugnalarci alle spalle”.

Ad Alessandro Di Battista, in quegli istanti, devono essere fischiate le orecchie. Ma troppo comodo cavarsela così. La mancanza di un’identità definita e riconoscibile dei 5 Stelle che li ha resi ondivaghi su tutti i provvedimenti da assumere una volta giunti nella stanza dei bottoni non può essere liquidata con un’analisi autoassolutoria com’è stata quella di Luigi Di Maio a proposito del “meglio essere ingenui che imbroglioni e ladri”. Il fatto che il MoVimento abbia perso più della metà dei consensi conseguiti solo due anni orsono non può essere spiegata con l’incapacità dell’elettorato di comprendere che le riforme epocali richiedano tempo per produrre il cambiamento desiderato oppure prendendosela con i sodali critici che non avrebbero svolto al meglio il loro compito di soldatini intruppati nell’esercito grillino. Di Maio invoca il realismo per la nuova politica pentastellata e chiama a testimone niente meno che il ricordo di Aldo Moro. Un bel salto mortale rispetto ai “Vaffa” savonaroliani di Beppe Grillo per giustificare la circostanza di aver dovuto cambiare idea su molti dossier, affrontati un tempo dai banchi dell’opposizione con la demagogia e l’infantilismo politico che la dialettica democratica consente a chi non abbia la responsabilità di governare il Paese.

Di là dalle molte lacune mostrate da un’analisi svolta “Cicero pro domo sua”, si percepisce la sensazione che Di Maio non si sia auto-rottamato ma resti il politico più attrezzato dell’intera compagnia grillina. Il fatto che abbia compiuto un passo indietro o che lo abbiano costretto a farsi da parte rimanda a un interrogativo che deve interessare tutti noi, visto che comunque il Cinque Stelle è il primo partito in Parlamento e, soprattutto, il principale sostegno a un Governo che non ha alcuna intenzione di togliere il disturbo. Chi raccoglierà i cocci di ciò che resta del grillismo? Non di certo il dirigente chiamato a reggere la transizione fino alla data di convocazione degli “Stati generali”, Vito Crimi. Con tutto il rispetto per la persona, il politico Crimi ha il profilo del mediocre burocrate di scarso acume politico. Cosa potrà combinare da domani in avanti è difficile prevederlo. Così come resta incomprensibile la scelta del momento in cui annunciare le proprie dimissioni, a quattro giorni dal test elettorale delle regionali in Emilia-Romagna e in Calabria. L’immagine che si proietta all’esterno è quella di un generale che abbandona il suo esercito alla vigilia della battaglia decisiva per le sorti della guerra. Qualunque ne sia la motivazione, non è una bella scena.

Possiamo fare delle supposizioni. Di Maio molla oggi per poter uscire con stile dalla partita prima che si abbatta sul MoVimento l’ennesima catastrofe elettorale. È evidente che i vertici grillini abbiano tra le mani gli ultimi sondaggi sulle intenzioni di voto che devono aver pronosticato un crollo colossale di consensi. E il giovane Di Maio, stufo di fare da parafulmine o, se si vuole, da capro espiatorio a tutte le sconfitte pentastellate, non vuole aggiungere l’ultima batosta al curriculum. Ciò indica che il giovanotto fa un passo indietro oggi per farne due avanti domani. Non lascia la politica.

Al contrario, annuncia che nella fase di rifondazione del MoVimento lui ci sarà e dirà la sua. La decisione del padre-padrone Beppe Grillo di consegnare i Cinque Stelle all’area progressista dominata dal Partito Democratico non piace a Luigi Di Maio. Lo si scorge tra le pieghe del suo discorso, nella rivendicazioni di scelte prese in accordo con la Lega nel corso della esperienza di governo giallo-blu, che Di Maio rivendica come vittorie dei grillini e non come errori di cui chiedere scusa ai nuovi alleati progressisti. È ipotizzabile che il leader sconfitto si prepari a guidare l’opposizione al progetto di confluenza dei Cinque Stelle nell’area del centrosinistra. La sua idea resta quella di trasformare i Cinque Stelle in un partito-ago della bilancia in futuri contesti determinati dalla modifica della legge elettorale in senso proporzionale. La nuova formazione che lui ha in mente potrebbe, una volta approdata in Parlamento, continuare a galleggiare per molti anni appoggiando alternativamente governi di destra e di sinistra, secondo la convenienza del momento. Tuttavia, su questa strada la nuova “cosa” grillina potrebbe incrociare il rischio concreto per il MoVimento di arrivare liquefatto alla scadenza in marzo degli Stati generali.

Un risultato vincente per la destra plurale domenica prossima in entrambe le regioni chiamate al voto, combinato a un crollo sotto il 10 per cento dei grillini, potrebbe spianare la strada alle elezioni anticipate in primavera. Se così fosse i Cinque Stelle si troverebbero completamente privi di leadership nel momento decisivo di combattere per la sopravvivenza e finirebbero emarginati nella partita elettorale per la nuova legislatura. Al giovane Di Maio, desideroso di rivincita sui nemici interni e di darsi una seconda vita in politica dopo la prima spesa a imparare come ci si muova nel “Palazzo”, non rimarrebbe che un mesto ritorno al grigiore della vita comune avendo imparato un mestiere poco spendibile nella sua Pomigliano d’Arco. È così che muore una stella.


di Cristofaro Sola