Pentastellati a Congresso

Benché nessuno sappia ancora dove e come si terranno gli stati generali del Movimento 5 Stelle, ovvero il loro Congresso, non v’è dubbio alcuno a proposito dei movimenti interni a questo non-partito. Intanto va detto che quel “non” si è lentamente ma inesorabilmente cancellato, permettendo più o meno il leggendario Rousseau, soprattutto grazie anche ad un’intensa cura governativa, tuttora in atto, della quale è interprete principale Luigi Di Maio.

Una delle linee di fondo del Movimento è stata ed è quella di non allearsi con nessuno, agendo in una sorta di splendido isolamento oppositorio contro tutto e tutti, ed ora Di Maio vorrebbe conservare questo tentativo. Il fatto è tuttavia che gli deve sfuggire un altro fatto per dir così storico, nel senso che il “suo” partito ha stipulato con altri dei veri e propri contratti per un’alleanza in virtù dei quali è asceso al governo del Paese. Al potere.

Il sapore del potere è entrato per dir così nel corpo, peraltro non del tutto omogeneo politicamente, di un M5S del quale sarà molto complessa quella operazione di purificazione intrapresa proprio dalla stesso Di Maio, bene (o male) insediato in uno dei ministeri più importanti del Paese.

Ma, si sa, le contraddizioni sono sale e pepe della democrazia ma al tempo stesso, senza un orizzonte, rischiano di tradursi in una difficoltà sempre più acuta di azione venendo meno i principi di fondo e le ragioni stesse del suo operare. La politica del fare (di cui un leader come Bettino Craxi era addirittura un teorico) è il contrario dello svolgersi di quella che abbiamo sotto gli occhi e che riguarda, peraltro, l’intero corpus italicus, a parte una Lega guidata da un Matteo Salvini che proprio dall’opposizione (grazie anche alle incapacità altrui) dà quotidianamente l’esempio del come e dove deve andare una Polis confusa e inconcludente nella sua azione governativa, sol che si osservi la questione della nave e relativo impeachment parlamentare salviniano risoltosi anche questo nel suo rovescio con una ulteriore spinta a favore del “Capitano”.

“È la politica, bellezza!”, direbbe qualcuno, ma è del tutto certo che tale considerazione non è e non sarà di molta utilità a un M5S che preferisce un isolamento più o meno splendido ma sostanzialmente poco fruttifero, specialmente in tempi di elezioni regionali, tant’è vero che all’interno dei pentastellati non mancano i tentativi opposti a un dimaismo di stampo conservatore, nel senso che il suo interprete vorrebbe trattenersi sia la responsabilità di un ministero oggettivamente impegnativo, specialmente per chi non ne ha mai frequentato la portata a livello internazionale, con risultati che definire deludenti sarebbe un complimento; bastino come esempio le vicende di una Libia dalla quale siamo letteralmente scomparsi facendo commentare a non pochi uno sconsolato “chi l’avrebbe mai detto!” davanti all’occupazione della scena da parte di Russia e Turchia.

Gli stati generali, come un po’ pomposamente viene chiamato il prossimo venturo congresso del M5S, potrebbero e dovrebbero innanzitutto aprirsi ad un dibattito interno del quale, ogni tanto, si avverte qualche segnale da parte, se non di correnti vere e proprie, di protagonisti insoddisfatti dell’operato di Luigi Di Maio, alcuni dei quali, se non tutti, guardano verso una gauche più a sinistra dello stesso Pd col quale governano ma del quale temono le maggiori esperienze nella gestione del potere, soprattutto a livello locale-regionale, da cui la relativa corsa solitaria in quell’Emilia Romagna della quale si attendono risultati a proposito del presidente piddino uscente.

E si ha un bel dire, sia da parte di Nicola Zingaretti che di Giuseppe Conte che di Luigi Di Maio, che quelle elezioni hanno un carattere puramente locale, per cui un risultato negativo per l’uscente non potrà incidere sulla stabilità governativa.

Un risultato negativo non potrà non avere un significato politico. E relative conseguenze.

Aggiornato il 22 gennaio 2020 alle ore 11:37