martedì 10 dicembre 2019
Avevano detto che quell’incontro corsaro tra i due Matteo fosse una bufala, una fake news. Che, negli orti della suntuosa magione dell’anfitrione Denis Verdini a Pian dei Giullari, sulle docili colline che posano lo sguardo sopra Firenze non sarebbe accaduto nulla di epocale e quel tête-à-tête tra Matteo Salvini e Matteo Renzi non sarebbe mai avvenuto. Eppure, a leggere le dichiarazioni rilasciate dal leader leghista a “Il Corriere della Sera”, viene il sospetto che il “Patto del Chianti”, suggellato dall’ottimo vino servito dal padrone di casa, vi sia stato.
La serata di Pian de Giullari le malelingue l’avevano raccontata così: il fiorentino, padre-padrone di “Italia Viva” ma mezzo morto per colpa dei magistrati che gli stanno alle costole, ha messo sul piatto il voto anticipato in cambio di due cose: una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, a lui favorevole e soprattutto sfavorevole ai suoi diretti competitor – leggi Carlo Calenda – e la scelta di un candidato debole per la coalizione della destra plurale alle prossime regionali in Toscana, di modo da regalare la sfida a “Italia viva” perché possa fare dell’ex regione rossa la linea del Piave del potere renziano. D’altro canto, visto lo scarso entusiasmo col quale è stata accolta nel resto d’Italia la scissione dal Pd del suo ex-leader, perché non ridare vita al Gran Ducato di Toscana? Non sarebbe una novità per la sinistra. È già accaduto che il personaggio del momento puntasse a fare della regione un feudo politico personale. Anche l’uscente Enrico Rossi è stato tentato dall’autoinvestitura a uomo del destino per l’antica Tuscia. Abbiamo detto dell’offerta di Renzi. E Salvini? Si dirà, il “Capitano” è uomo tutto d’un pezzo: si spezza ma non si piega. Dai suoi fioccano smentite come neve nelle giornate fredde: l’incontro è una fake, non c’è stato, niente vino, niente brindisi e niente accordi sottobanco.
Poi però arriva l’intervista di Salvini che, dopo aver sostenuto il ritorno al maggioritario secco al punto da promuovere un referendum per abrogare la quota di proporzionale che sta nel “Rosatellum”, apre alla proposta renziana. All’intervistatore dice: “Io sono laico. Non ho pregiudizi. L’importante è che chi vince poi possa governare”. Cosa vuol dire? Che gli andrebbe bene anche un proporzionale non troppo penalizzante? E lui insiste: sarebbe un errore “bloccare il Paese per la legge elettorale”. Insomma, meglio un cattivo accordo che una causa vinta. Se l’ultima uscita di Salvini non è tattica, gioco di fioretto, c’è da concludere che sì, quell’incontro a Pian dei Giullari c’è stato e ha sortito i suoi effetti. A rifletterci, Matteo Renzi non ha altra scelta che dare seguito al suo programma originario: far votare la legge di Bilancio con il contributo decisivo dei suoi sodali e filare dritto alle urne per sfruttare il momento di crisi dei Cinque Stelle e del Partito Democratico. Nonostante le manipolazioni della realtà operate dalla dirigenza “dem” i tentativi di fare passare Nicola Zingaretti per un Franςois Mitterand redivivo, con la fantasia de “La force tranquille”, la forza tranquilla ricevuta in eredità dal padre putativo dell’ultimo socialismo transalpino, sono miseramente falliti. Zingaretti ha la velocità d’azione del bradipo; indeciso su tutto, ha portato il partito a un lento ma costante dissanguamento nei consensi. Il Pd è dato sotto il 20 per cento pur avendo occupato tutte le caselle del potere disponibili in Italia e in Europa.
Renzi gli ha preso le misure e adesso è pronto ad aggredirlo. Tuttavia, a mettere stizza al senatore di Scandicci è stata la discesa in campo di Carlo Calenda. I due un po’ si somigliano: quasi la stessa età, gli stessi studi in giurisprudenza in università statali, il medesimo attaccamento alla famiglia tradizionale, la stessa voglia di farsi un partito a propria immagine. Poi, però, le differenze. Soprattutto nel quid che il fiorentino non ha, mentre l’altro sì. Renzi non ha dalla sua il mondo dell’industria sul quale conta Calenda per averlo frequentato da manager del gruppo Fiat prima e da dirigente di Confindustria dopo. Non ha dalla sua i salotti buoni romani che Calenda ha praticato fin da bambino a seguito di genitori e nonno famosi. Pur avendo avuto rapporti con uomini e donne della politica globale Renzi è rimasto quello degli amici della parrocchietta del “giglio magico”, il provinciale tenuto ai margini dell’establishment internazionale, l’altro invece è stato introdotto in tempi non sospetti negli ambienti giusti della grande finanza dal suo mentore, Luca Cordero di Montezemolo. In fatto di credibilità e di coerenza tra i due non c’è partita: Calenda vince per knock-out tecnico. Con un tale quadretto quanto pensate impiegherà il manager Calenda a far crescere la sua creatura politica “Azione” presso una certa borghesia imprenditrice, centro-settentrionale, ricca, europeista e illuminata, in cerca di un serio approdo politico? Renzi lo ha capito e per questo non può concedere tempo all’ex amico di estendere il suo consenso: deve ammazzarlo nella culla se vuole sperare di mantenere un contatto col segmento alto dei ceti produttivi italiani. Sul versante opposto, anche Salvini ha il suo bel daffare. Ha Giorgia Meloni che sta crescendo a vista d’occhio. La “pasionaria” della Garbatella piace alla gente e questo è un problema per il “Capitano”. Poi c’è la patata bollente di Forza Italia. Lì occorrerebbe il lettino dello psicanalista.
Con il vecchio leone di Arcore c’è un rapporto di odio/amore. A contatto, il giovanotto ne resta intimidito ma conquistato; a distanza, vorrebbe fargli l’elogio funebre e sbarazzarsene. Ma non può. Sa che Berlusconi è ancora un pezzo da novanta, soprattutto all’estero. E lui che di amici fuori dei confini non ne ha tantissimi, ne ha bisogno. Poi ci sono i forzisti, che sono una specie protetta: si stanno estinguendo per le insane abitudini politiche che perseguono ma serve conservarne una quota per garantire l’equilibrio dell’ecosistema nella nuova destra plurale. Ma in Salvini non c’è gran voglia a farlo per cui una legge proporzionale che spazzi via il problema delle candidature unitarie nei collegi uninominali lasciando alla forza di ogni singolo partito la capacità di farsi votare i suoi, potrebbe tentarlo. Ora, Renzi e Salvini per essere due che dicono di non amarsi e di non avere nulla da spartire mostrano troppe assonanze perché si parli di coincidenze fortunose. E poi c’è il deus ex machina Denis Verdini, maestro di ricamo fiorentino.
Lui ufficialmente è fuori da tutto, ma non dalla logica della politica. Il conto su cui il toscanaccio scommette, con l’aiuto del proporzionale, è che l’acclamata destra plurale vinca ma non stravinca. Non disponendo della maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento, Salvini avrà bisogno di un donatore di sangue che lo spinga verso Palazzo Chigi. Si è pensato a Luigi Di Maio e alla pazza idea di tornare, dopo una catartica abluzione nelle urne, a nuova vita politica, lontana dalle sparate di Beppe Grillo, con una pattuglia ridotta di fedelissimi da schierare a fianco del vecchio sodale leghista. Abbiamo insinuato che il grillino in via d’uscita potesse puntare a fare le scarpe a Berlusconi per il posto di terza gamba della coalizione in luogo di Forza Italia. E se invece fosse stato proprio Verdini a servire ai due, con Cantucci e Vin Santo, l’idea di un soccorso renziano al primo governo sovranista targato Salvini? Perché scandalizzarsi? In fondo, questa è l’Italia del Bellavista di Luciano De Crescenzo per il quale nessuna “Lotta” può essere “Continua”: c’è sempre un Natale, una Pasqua o un fine settimana di mezzo.
di Cristofaro Sola