Caro Grillo, ma quanto è vicina la Cina?

mercoledì 27 novembre 2019


Che ci faceva Beppe Grillo all’ambasciata cinese? Due incontri riservatissimi a stretto giro (venerdì e sabato della scorsa settimana) con l’ambasciatore di Pechino, Li Junhua. Che si saranno detti? Non avranno mica parlato della ricetta del pesto alla genovese, come ha raccontato il comico politicante per sviare, inutilmente, l’attenzione dei media? Grillo è abituato a offendere le altrui intelligenze, ha costruito una fortuna economica sugli insulti, ma stavolta casca male: signor Beppe, pensa davvero che gli italiani abbiano l’anello al naso? Stiamo ai fatti e agli incastri nella successione degli eventi.

Grillo si fionda a Roma per incontrare Luigi Di Maio. Più che di un meeting si tratta di una chiamata a rapporto del giovane capo politico del Movimento Cinque Stelle. Di Maio non si fa trovare, è in Sicilia ad arringare un popolo che sta sotto la pioggia. Se fosse stato un ministro degli Esteri vero avrebbe dovuto essere altrove, ai lavori dei ministri degli Affari esteri del G20 riuniti nelle stesse ore a Nagoya, in Giappone. Ma la tratta Licata-Castelvetrano è l’ultimo ridotta della resistenza elettorale pentastellata, mentre Nagoya è lontana. Al suo posto, al summit, viene spedita la viceministra Emanuela Del Re, che almeno di politica estera ne capisce qualcosa. Siamo a sabato. Grillo non ha gradito la fuga in Sicilia del suo rampollo e gli ha intimato l’immediato rientro anche perché la situazione all’interno del Movimento si è fatta esplosiva. Come un Giuseppe Garibaldi al generale Alfonso La Marmora che gli intima, il 9 agosto 1866, di fermare l’inarrestabile avanzata verso Trento contro gli austriaci, Luigi telegrafa a Beppe: “Obbedisco!” Di prima mattina il faccia-a-faccia. Il barometro del cielo grillino segna burrasca. Qualcuno scommette sulla defenestrazione del capo politico pentastellato. Scommessa persa. I due si presentano, dopo un’ora e passa di colloquio privato, sul consueto palcoscenico della diretta social per proclamare urbi et orbi il loro feeling. Grillo rilegittima il pupillo alla sua maniera, a chi non è d’accordo impartisce un ecumenico “non rompete i coglioni”. Tempesta evitata? Non del tutto. Nella diretta è lo stesso Grillo ad annunciare che starà più vicino a Luigi, che nel linguaggio criptico della setta grillina si traduce in commissariamento della funzione del capo politico.

Sistemato Di Maio, Grillo si catapulta all’Ambasciata della Repubblica Popolare di Cina per un secondo incontro con l’ambasciatore (il primo si era svolto il giorno precedente). Ora, non si tratta di fare i complottisti ma appare piuttosto singolare la sequenza degli eventi. Ambasciata di Cina-Hotel Forum-Ambasciata di Cina, andata, ritorno e di nuovo andata: il garante, il padrone, il capo del Cinque Stelle va a rapporto dai cinesi? Per rassicurarli sulla sorte del “Conte bis”? Per garantire sulla tenuta del suo uomo di fiducia che dà segni di nervosismo? Sugli impegni presi da “Chigi” con il Governo di Pechino? A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si azzecca.

Si dirà, cosa frega ai cinesi delle guerre dei bottoni combattute dalla politica italiana? Frega, eccome. Pechino ha puntato sui grillini? È di certo vero il contrario. L’occhio sulla Cina i padroni del Movimento grillino l’hanno avuto da sempre. Già nel 2013 Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio fecero visita all’allora ambasciatore cinese Ding Wei. È per iniziativa della componente pentastellata del passato Governo giallo-blu con la Lega la firma del Memorandum sulla Via della Seta che ha aperto la strada al gigante cinese per mettere tende nel cuore dell’Europa con i capitali, le merci, le tecnologie e la capacità d’influenza geopolitica. La domanda a questo punto sorge spontanea: non è che i pentastellati stiano spingendo l’Italia tra le braccia del dragone cinese, determinando di fatto un cambio di alleanze strategiche di portata storica? Per fugare ogni dubbio basterebbe che il comico Grillo, l’inventore della politica da aprire come le scatolette di tonno e delle dirette streaming elevate a simbolo di onestà e di trasparenza della nuova levata di santi-poeti-navigatori, ci raccontasse la verità sugli incontri con l’ambasciatore cinese. Quelli de “Il Giornale” si sono inventati un set di domande azzeccatissime alle quali il comico farebbe bene a rispondere. Purtroppo qualcosa ci dice che il “papello” sarà rispedito intonso al mittente. Come al solito, il comico-giullare si limiterà a collegarsi via social per spargere amenità e insulti a iosa.

Nel frattempo, i blog tacciono. Niente si dice sul Blog Cinque Stelle della visita del garante del Movimento all’ambasciatore cinese. Eppure è un evento politico non trascurabile. E niente è riportato sul blog personale di Beppe Grillo. In verità qualcosa vi compare, e di molto indicativo. Il comico, nel resoconto settimanale, scrive “Il nostro Fabio Massimo Parenti è tornato a parlare dello Xinjiang, dopo il suo primo report, un mese fa, urgeva un ulteriore chiarimento. La regione cinese è coinvolta in una campagna mediatica sui diritti umani volta a screditare l’operato del governo cinese, accusato ripetutamente di violare i diritti umani della etnia musulmana uigura, maggioritaria in Xinjiang”. E bisogna leggerlo il reportage: una marchetta alla bontà, bravura, democraticità dei dirigenti cinesi. E le accuse di genocidio culturale ai danni dell’etnia uiguri? Si tratterebbe di una campagna denigratoria in cui “si rinvengono manipolazioni, strumentalizzazioni per fini geopolitici (discreditare il governo cinese per contenerne l’ascesa di legittimità), ingerenze e arbitrarietà di giudizio”.

E poi ci si meraviglia del silenzio assordante del Governo italiano e del ministro Di Maio sulle proteste della popolazione ad Hong Kong e sulle accuse di violazione dei diritti umani rivolte all’amministrazione filo-cinese della ex-colonia britannica. Il quadro è chiaro, che Grillo decida o no di rispondere alle domande postegli dai media: l’Italia dei Cinque Stelle è meno occidentale e più filo-cinese. Il gioco delle tre carte con cui il premier Giuseppe Conte ha ingannato Donald Trump avrà vita breve. Al nostro Paese non sarà consentito a lungo di tenere il piede in due staffe. Prima o poi il nostro Governo sarà richiamato all’ordine dal potente alleato statunitense. E cosa accadrà? Preferiremmo non doverlo scoprire. Preferiremmo che la scelta esiziale di ribaltamento delle alleanze strategiche venisse sottoposta, insieme alle altre questioni programmatiche, al giudizio degli elettori. Siamo o no una democrazia? Allora che sia il popolo a decidere se suicidarsi diventando suddito dell’impero del dragone o se restare occidentale com’è stato dalla fine della Seconda guerra mondiale.

La situazione in cui versa il nostro sciagurato Paese ha dell’incredibile: minoranze politiche asserragliate nei Sacri Palazzi del potere, che sfacciatamente ammettono di non potere tornare al voto perché sarebbe una tragedia per le loro sorti; orde di sedicenti “democratici” camuffati da sardine, in realtà pescetti di cannuccia, che si mobilitano, unico caso al mondo, non contro il Governo che nega la volontà popolare ma contro l’opposizione che l’invoca; squallidi agitatori propagandisti spacciati per anchorman che portano in video una delinquente che, al comando di una nave delle Ong, ha speronato un’unità della Guardia di Finanza che le intimava l’alt in acque territoriali italiane, e l’omaggiano come se fosse la Madonna di Porto Salvo. Ma cosa ci sta succedendo? Verrebbe da chiedersi se vi sia giustizia a questo mondo. E chi può saperlo se a Berlino vi sia ancora un giudice? Ciò di cui siamo incrollabilmente certi è che per questo gran casino un colpevole c’è e soggiorna al Quirinale.


di Cristofaro Sola