martedì 26 novembre 2019
Dai commenti di autorevoli opinionisti si evince che l’immobilismo italiano è una sorta di iattura divina, la cui responsabilità non può ascriversi ad alcuno; è un figlio di padre ignoto e madre innominata. La logica dei commenti può essere così sintetizzata: in Italia dalla progettazione alla realizzazione di un’opera, grande o piccola che sia, trascorre un tempo immenso; l’impersonale burocrazia, che non si sa da dove viene, ritarda i lavori; io comunque, da bravo opinionista “politicamente corretto”, voto a sinistra. La tardiva scoperta dei “caduti dal pero” – a seguito delle vicende Ilva, Mose, crollo del viadotto sulla A6 – somiglia alle “pacche sulle spalle” dei leader europei al nostro “Giuseppi”: l’una e le altre non annunciano alcun cambiamento e non producono alcun rinsavimento.
In verità i grovigli burocratici che immobilizzano l’Italia hanno un padre e una madre. È bene chiamarli per nome e cognome: ostacoli e impedimenti socialcomunisti e cattocomunisti all’attività d’impresa. Nascono dalla cultura del sospetto e dal pregiudizio anticapitalistico, entrambi afferenti all’ideologia politica che asserisce la supremazia dell’apparato pubblico sulla persona individuale, in nome di una malintesa “socialità”. La burocrazia non viene dal nulla; è diretta emanazione della legislazione invasiva, che pianifica e guida l’intervento dei poteri pubblici in ogni ambito della vita associata.
Lo statalismo e il collettivismo sono i padri della società burocratizzata, per la semplice ragione che lo Stato non può agire, se non a mezzo di apparati burocratici (non a caso il comunismo sovietico ha toccato vette inarrivabili di burocratizzazione); sicché il tasso di burocrazia equivale necessariamente al tasso di statalizzazione e collettivismo; e non ha senso lamentarsi del primo, se ci si appaga del secondo. In ultima analisi, l’eccesso di burocrazia che immobilizza l’Italia va letto come eccesso di legislazione di ispirazione socialcomunista e cattocomunista. I cantori delle meraviglie della “socialità” affidata alle cure monopolistiche dello Stato non sono affatto coerenti, quando “cadono dal pero” e scoprono improvvisamente i guasti della burocrazia.
D’altronde, sono anche cantori della “trasparenza” e della “moralità”, nel cui nome invocano un numero crescente di controlli, atti a prevenire il “malcostume” degli arricchimenti ingiustificati e i fenomeni di corruzione. Nessuno dei maître à penser si chiede se per caso i controlli preventivi ulteriori non forniscano occasioni ulteriori perché si stringano patti corruttivi; e nemmeno si chiede perché mai, nel resto del mondo, i reati sono sottoposti a sanzione dopo la commissione, mentre in Italia si pretende di perseguirne perfino la premessa intenzionale. Il coprifuoco può essere un ottimo metodo per prevenire possibili episodi delittuosi sul far della sera; peccato che nessuna società può prosperare in regime di coprifuoco. Ebbene il nostro osservatore si duole degli effetti del coprifuoco, ma ne accetta, almeno implicitamente, le basi giustificative.
Dimentica che l’estirpazione della radice del male non compete allo Stato laico di diritto; il suo compito è quello di reprimere i reati giunti a compimento, non già di immobilizzare la società per la fobia dei reati che si suppongono in itinere. Ovviamente, nella costruzione di un’opera pubblica, non possono mancare reati in itinere, per il semplice fatto che il “denaro è lo sterco del demonio” e l’imprenditore privato è un avido speculatore, pronto a ogni intrallazzo pur di realizzare il suo “lucro”. La cultura del sospetto (come l’eccesso di burocrazia) ha radice nell’ideologia anticapitalistica, che ravvisa nel perseguimento del profitto individuale la fonte primaria di ogni male e pertanto, volendo prevenire il male, immobilizza la società.
Inoltre, il bravo opinionista “caduto dal pero” ha sempre avversato qualsivoglia tentativo di limitare l’esondazione delle funzioni e dei poteri della magistratura inquirente. La netta distinzione concettuale e funzionale tra la magistratura inquirente e giudicante, nella rimanente parte del mondo, trova corrispondenza nella separazione delle carriere; in Italia, non si sa perché, l’inquirente dovrebbe possedere la “cultura della giurisdizione” e ciò impedirebbe tale separazione, accolta in tutti gli ordinamenti democratici; si giustifica poi l’esorbitante e crescente intervento degli inquirenti nella dinamica politico-sociale con la teoria della “supplenza”.
In Italia e solo in Italia, la divisione dei poteri è flessibile e ammette le eccezioni della “supplenza”; il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che il potere di governare, ossia il potere di fare, è soverchiato dai controlli inibitori, ossia dal potere di impedire. Non è difficile ravvisare in questo cortocircuito istituzionale, voluto dai “progressisti” di casa nostra e benevolmente definito “supplenza” dai commentatori à la page, la base genetica dei provvedimenti giudiziari, ovviamente “preventivi”, che hanno contribuito a determinare la paralisi dell’Ilva.
Infine, è superfluo aggiungere che i tardivi scopritori dell’immobilismo, hanno sempre avversato qualsivoglia “scudo penale”. E non parliamo solo della tutela dell’ingente investimento economico di ArcelorMittal, ma anche di quel necessario margine di insindacabilità che conferirebbe certezza alle scelte politico-amministrative apicali, assunte nel rispetto delle regole procedurali. Chi dimentica la campagna di stampa contro l’immunità penale del presidente del Consiglio, proposta dal governo Berlusconi? La stampa “politicamente corretta” plaude a qualunque “avviso di garanzia”, ma trascura il sotterraneo “sciopero della penna” di tutti gli organi amministrativi, esposti al rischio penale in ragione della firma.
La combinazione di questi fattori, tutti riconducibili alla pretesa socialcomunista e cattocomunista di indirizzare la società lungo le vie della “Moralità” e della “Giustizia”, mediante controlli sempre più cogenti e numerosi, ha progressivamente condotto l’Italia all’attuale immobilismo. Il “fattore K” non è morto con la caduta del muro di Berlino, produce i suoi effetti nefasti oggi più che mai. Il bravo opinionista, giunto per ultimo a constatare il decesso, non se n’è accorto oppure finge di non accorgersene.
di Michele Gelardi