Care sardine, contestatrici immaginarie

venerdì 22 novembre 2019


Dopo il raduno di Bologna, il “Movimento delle sardine” prova a darsi un’identità con il lancio di un “Manifesto”. La mitologia dei proclami è roba che ha infiammato da sempre i cuori dei giovani. I padri del comunismo, Karl Marx e Friedrich Engels, per dare concretezza alla loro speculazione filosofica, scrissero il “Manifesto del Partito Comunista”. Il testo esordiva con un incipit potente, una minaccia in luogo di una promessa. Quel “Uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo”, ha condizionato la storia dell’umanità al tempo delle rivoluzioni industriali, del crollo degli imperi e del sorgere delle democrazie.

Anche il Fascismo fu anticipato dalla divulgazione di un “Manifesto”: il Patto di Piazza San Sepolcro (a Milano ndr) dei Fasci di combattimento, pubblicato il 23 marzo 1919. La struttura del documento era asciutta, essenziale, schematica ma l’incipit gagliardo, virile, tosto, come si direbbe oggi. “Italiani! Ecco il programma di un movimento genuinamente italiano. Rivoluzionario perché antidogmatico; fortemente innovatore; antipregiudiziaiolo”, con queste parole nasce il Fascismo.

Imprese guascone, a metà strada tra il trasgressivo, l’anarcoide e il libertario, alimentano il proprio mito attraverso la stesura di un proclama. Come la conquista di Fiume ispirata e guidata dal “Vate” Gabriele D’Annunzio, che ha nella “Carta del Carnaro” il suo fulcro. Già, Fiume, “l’estrema custode italica delle Giulie”, “l’ultima portatrice del segno dantesco” chiama a sé il sacrificio di migliaia di giovani legionari, pronti a ribaltare con la forza l’arrogante volontà delle nazioni vincitrici del Primo conflitto mondiale.

Non solo la politica ma anche l’arte si avvale dello strumento del “Manifesto” per segnare un passaggio d’epoca o la nascita di uno stile. Come non pensare al “Manifesto futurista” di Filippo Tommaso Marinetti? Il documento, apparso in francese sul “Figaro” il 20 febbraio 1909, è un’esplosione di colori forti, è un inno alla modernità, alla macchina, alla velocità, alla tecnica. I suoi panorami non sono campestri ma hanno a sfondo la fabbrica e le sue ciminiere, la città con tutto il suo caos. Il succo del futurismo è concentrato nel punto 3) del Manifesto: “La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”. Le parole colgono lo Spirito del tempo.

In anni più recenti, la contestazione studentesca del Sessantotto italiano ha avuto il suo “Manifesto”. Tale è considerato l’articolo dedicato all’occupazione di Palazzo Campana a Torino il 27 novembre 1967, intitolato “Contro l’Università”, scritto da Guido Viale e pubblicato per la prima volta sul numero 33 di “Quaderni Piacentini” del febbraio 1968. L’attacco alle strutture dello Stato borghese è violento e diretto. L’Università è il principale obiettivo della lotta studentesca. “L’Università funziona come strumento di manipolazione ideologica e politica teso a instillare in essi (gli studenti ndr) uno spirito di subordinazione al potere (qualsiasi esso sia) ed a cancellare nella struttura psichica e mentale di ciascuno di essi, la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di avere dei rapporti con il prossimo che non siano puramente di carattere competitivo”, tale fu la premessa sulla quale una generazione di ragazzi e di ragazze decise di mettere a ferro e fuoco l’Italia al grido di “Lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”.

Nel settembre 1971 vede la luce il “Manifesto dei Conservatori”, l’identikit di un tipo d’italiano di cui per lungo tempo si è negata l’esistenza, banalmente incorporandola nella storia del fascismo. Dell’opera s’incarica Giuseppe Prezzolini, intellettuale di rango, tenace anticonformista, pensatore all’avanguardia. Per la destra negata il “Manifesto dei Conservatori” è stato un faro acceso nella notte. Dunque, non sorprende il fatto che anche le “sardine” si siano dotate di uno strumento di propaganda ampiamente collaudato. Ma le analogie col passato si fermano qui. Tutti i “manifesti” citati avevano in comune una caratteristica che non abbiamo rinvenuto dalla lettura del “Manifesto delle sardine”: di là dalla prosa, più o meno violenta, appassionata, coinvolgente tutti i documenti recavano un lucido programma d’azione. In essi le idee venivano tramutate in linee programmatiche destinate a cambiare la società. Al contrario, nella carta delle sardine non v’è traccia di proposte da attuare, di cose da fare, di idee sulle quali chiamare a raccolta il popolo. Di violenza nelle parole dei promotori c’è n’è, anche se spacciata per profilassi democratica contro il populismo. L’incipit è assertivo in forma ultimativa: “Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita”. Si dirà, sono ragazzi, hanno la sfrontatezza dei verdi virgulti. Quindi non sorprende leggere: “Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare”. A prenderli sul serio bisognerebbe concludere che il populismo intanto è cresciuto e ha dilagato perché loro, le sardine, lo hanno permesso. Se non fossero ragazzi che non vanno troppo umiliati basterebbe chiedergli: visto che potevate fermare la barbarie perché non ci avete pensato prima? Poveretti, non potevano, erano presi. Lo dicono loro dov’erano: a casa, in famiglia, a impegnarsi nel volontariato, a fare sport, a occupare il tempo libero.

Insomma, è il popolo dell’happy hour che scopre di avere un’anima, per un cervello si vedrà. Peccato però che, guardando il biglietto da visita, sia forte la sensazione di trovarsi al cospetto dei figli di quella frazione di borghesia garantita e protetta che non ha alcuna intenzione di mollare la posizione di privilegio a favore di una redistribuzione dei pesi all’interno della comunità nazionale. Somigliano terribilmente ai loro genitori putativi passati per Valle Giulia nel giorno nero della Repubblica. Sono quelli di cui Pier Paolo Pasolini direbbe male come disse male dei loro ascendenti sessantottini. Hanno, in compenso, la medesima baldanza che traspare dalle carte del Fascismo movimentista o dalle spinte rivoluzionarie dei futuristi. “Non c’è niente da cui ci dovete liberare, siamo noi che dobbiamo liberarci della vostra onnipresenza opprimente, a partire dalla rete. E lo stiamo già facendo. Perché grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare”, è il pensiero contenuto nel Manifesto ma potrebbe essere tranquillamente una pagina di energizzante prosa fascista, che liquida il metodo democratico delle elezioni con parodistici “Ludi cartacei”.

Ragazzi, sarebbe questo il vostro programma? Negare la platea all’odiato nemico? Finché si scherza è un conto; giocare a fare i rivoluzionari con la carta di credito di papà può starci, l’adolescenziale istinto rivoluzionario giustifica una dose di moralismo giacobino. Non durerà molto: sono alle viste le vacanze di Natale e ci sono le settimane bianche a Courmayeur da organizzare. Ma se la cosa dovesse prendere una brutta piega; se dagli infantili avventurismi si passasse a qualcosa di più pericoloso, come accadde dopo il Sessantotto con gli Anni di piombo, se iniziassero a spuntare le P38, occorrerà impartirvi una vigorosa strigliata per raddrizzarvi il pelo. Per il vostro bene. Ci ringrazierete quando, tra qualche anno, non sarete più quattro amici al bar a parlare di uguaglianza e di libertà ma sarete degli attempati borghesi impegnati a fare danari in Borsa o nell’accorsato studio professionale di papà.


di Cristofaro Sola