
Allora non di mafia si trattava, a Roma!
La Corte di Cassazione ci ha infatti detto che la tanto sbandierata operazione nota da anni col nome di “Mafia Capitale” riguardava sì la Capitale – cioè Roma – ma non aveva nulla a che fare con la mafia. Si trattava invece di normale criminalità organizzata in forma associativa e, come tale, suscettibile di riesumare quel vecchio articolo 416 del Codice penale che sembrava ormai definitivamente defunto. E invece no. Non era defunto. Era semplicemente collocato in quiescenza, e ora è stato risvegliato.
Insomma, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati non erano a capo della mafia romana – una nuova e insidiosa forma di mafia inaugurata a Roma – ma erano soltanto le persone che coagulavano un ben conosciuto sistema di malaffare proteso alla corruzione di pubblici funzionari. E si poteva arguire che così fosse già da tempo, all’alba dell’indagine di cui tanto parlarono i giornali di cinque anni orsono, semplicemente perché mancava già nella prospettazione dell’accusa un elemento fondamentale per costruire in modo giuridicamente plausibile la fattispecie mafiosa: quello della intimidazione.
Si capiva infatti subito che in tutti quei traffici non si intimidiva nessuno, perché, proprio al contrario, tutti erano – per così dire – ben lieti di partecipare alla spoliazione del pubblico erario per finalità ed interessi del tutto privati. Tutti erano partecipi – ahimè – felici e contenti di associarsi per garantirsi notevoli vantaggi patrimoniali a danno della corretta Pubblica amministrazione, ma del tutto estranei a intimidazioni nascenti dal vincolo associativo.
Questo fu subito chiaro per chi aveva occhi per vedere. In primo grado, il Tribunale mostrò di vederci benissimo. Nulla invece vide la Corte d’Appello. Ad aprirle gli occhi ci ha pensato ora la Corte di Cassazione.
Tuttavia, suona molto strano che, nonostante ciò, ci sia ancora chi interpreta il proprio ruolo in senso latamente agonistico, quasi si trattasse di vincere o di perdere in una contesa che in effetti nessuno sa quale sia né come si svolga. Solo così infatti mi pare di poter intendere ed interpretare le affermazioni – altrimenti incomprensibili – con le quali il pubblico ministero romano Luca Tescaroli e l’ex Procuratore Capo, Giuseppe Pignatone, hanno commentato la sentenza della Cassazione. Il primo ha affermato che in ogni caso, anche se di mafia non può parlarsi, si tratta comunque di reati gravi e che tali devono essere considerati. Il secondo ha invece affermato che pur se in questo caso non è corretto parlare di mafia – perché la Cassazione ha appena affermato non trattarsi di mafia – tuttavia a Roma la mafia esiste in numerosi casi simili a questo e che perciò bisogna tenerne conto.
Ma che risposte sono? Di cosa parlano le parole che le formulano? Si ha la spiacevole sensazione si tratti più che altro del tentativo di arginare quella che da alcuni viene vissuta come una specie di sconfitta personale e professionale alla quale bisogna cercar di porre rimedio.
E invece no. Quando si dice il diritto amministrando la giustizia, non ci sono vittorie e non ci sono sconfitte per nessuno. È un’attività che infatti va messa in opera sempre con “timore e tremore” e perciò non si deve indulgere mai ad accampare scuse o a indirizzare l’attenzione su aspetti altri e diversi, quasi come fanno i politici i quali, dopo le elezioni, dicono tutti – senza eccezioni – di essere vincitori, non accorgendosi di suscitare il ridicolo: se tutti hanno vinto, chi mai avrà perso?
Allo stesso modo: se “Mafia Capitale” è senza mafia – perché di questo si tratta – cosa c’entrano gli altri processi di cui parla Pignatone o gli altri reati di cui parla Tescaroli?
La domanda era semplice: nell’operazione chiamata dalla Procura “Mafia Capitale” c’era la mafia? La Cassazione ha risposto di no. E questo basti.
Aggiornato il 25 ottobre 2019 alle ore 19:04