Governi e Parlamenti: la banalità del politicamente corretto

venerdì 27 settembre 2019


C’è un tentativo manicheo, promosso dagli ascari del politicamente corretto, di leggere la crisi odierna della democrazia rappresentativa alla stregua dello scontro ontologico tra il Bene del parlamentarismo e il Male del populismo. Come se parlamenti e autocrati si fossero dati appuntamento nel presente storico della civiltà occidentale in una sorta di Armageddon definitivo. Gli ascari, a sostegno delle teorie sulla presenza del demonio populista nel cuore della civiltà occidentale, evocano, in negativo, gli esempi di Donald Trump negli Usa, di Jair Bolsonaro in Brasile, di Boris Johnson in Gran Bretagna, di Viktor Orbán in Ungheria e di Matteo Salvini in Italia (la Top five dei brutti ceffi del sovranismo è comparsa ieri nell’editoriale di Antonio Polito sul “Corsera” dall’eloquente titolo “Braccio di ferro globale tra leader e parlamenti”). Un solo filo nero che condurrebbe al progetto mondiale di fermare la globalizzazione economica demolendo la democrazia parlamentare e sostituendola con una nuova forma di autoritarismo: la democratura (grifone infernale metà democrazia metà dittatura). L’esito dello scontro, stando all’analisi di superficie di Antonio Polito, sarebbe tutt’altro che risolto in favore dei parlamenti che pure resistono. Al contrario, “gli aspiranti autocrati hanno ancora il vento in poppa, e non è affatto detto che non escano vittoriosi...”.

Una vittoria delle “democrature” (infelicissimo neologismo) comporterebbe un rovesciamento degli stilemi che delineano il profilo della civiltà occidentale, degradando verso standard di libertà, drammaticamente bassi, assimilabili a quelli di altre potenze globali non democratiche, e non liberali, quali la Federazione Russa di Vladimir Putin, la Repubblica popolare cinese di Xi Jinping e la Repubblica dell’India di Narendra Modi. Al riguardo pensiamo che tali tesi siano quanto meno superficiali, se non palesemente errate. Davvero si ritiene che la crisi che sta attraversando la democrazia fondata sulla rappresentanza sia causata dall’insorgere dei populismi in chiave anti-parlamentare? Al più, il fenomeno dei leader autocrati, posto che stia nei termini nei quali viene rappresentato, potrebbe considerarsi il sintomo del malessere, non la causa.

Il vero problema al quale assistiamo da alcuni anni a questa parte risiede nella sostanziale alterazione del nesso tra eletti ed elettori. Sul banco degli imputati deve salire il depotenziamento del rapporto fiduciario dell’eletto con il suo bacino di consenso, che ha generato forme anomale di individualismo parlamentare. Oggi senatori e deputati, vanificato il collante dell’ideologia veicolato attraverso la disciplina di partito, rispondono innanzitutto a se stessi. Ciò comporta che le decisioni assunte nell’esercizio della funzione parlamentare possano essere prese nell’interesse egoistico dei delegati piuttosto che in quello dei deleganti. Ma c’è di più. La tradizionale tripartizione dei Poteri che per secoli ha identificato il sistema statuale costituzionale d’impianto liberale è da considerarsi un anacronismo. Accanto a quelli codificati altri poteri, più invasivi e meno trasparenti, sono cresciuti nel tempo e hanno agito per intromissione sul funzionamento delle meccaniche democratiche. Mercati finanziari, governance di entità istituzionali sovraordinate agli Stati nazionali, organismi di gestione e controllo di equilibri geopolitici di teatro, lobby economiche transfrontaliere, sistemi di coordinamento e d’intelligenza tra le banche centrali, le agenzie internazionali di rating, i network globali della comunicazione e poi, a livello nazionale, la selva di Agenzie e di Authority spuntate come funghi a regolare al millimetro la vita degli individui e delle comunità territoriali, costituiscono Poteri preminenti ai quali i singoli parlamentari o gruppi di essi, aggregati in modo trasversale rispetto alle famiglie politiche d’appartenenza, consegnano il loro futuro politico, una volta ricevuto il mandato dagli elettori.

La realtà è che i primi nemici della democrazia sono i suoi stessi rappresentanti. Il principio di sovranità popolare è stato annichilito al punto da renderlo un simulacro di libertà. Basta guardare in casa nostra per comprendere cosa stia accadendo alla democrazia. Il leader del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, all’indomani della composizione del Governo con i Cinque Stelle, non gradito alla maggioranza degli italiani, ha testualmente dichiarato che la soluzione trovata in Parlamento in accordo con i nemici mortali del suo partito fosse stata premiata dai mercati con un significativo calo dello spread. Dal punto di vista del concetto di sovranità popolare è difficile rinvenire un’asserzione più eversiva di questa. Zingaretti, il capo di un partito politico di sinistra, ha candidamente ammesso che sopra la volontà popolare vi sia quella degli speculatori finanziari. E gli antidemocratici sarebbero i populisti? Si obietterà che queste sono battute propagandistiche. Può darsi, tuttavia ci sono i fatti, incontrovertibili, che pesano come macigni.

Se la scelta di consentire l’eterodirezione del Paese da parte di poteri extra-istituzionali, presa dal Pd, che non è di oggi ma risale ai tempi dell’Ulivo di Romano Prodi, può considerarsi una parte del problema c’è la vicenda dei Cinque Stelle che vale una trave o, per stare alle iperboli bersaniane, è la mucca nel corridoio della democrazia. I grillini hanno abbattuto gli steccati della polemica sul trasformismo per spingersi oltre. Il Movimento Cinque Stelle ha raccolto voti alle Politiche del 2018 su un programma caratterizzato dalla lotta alle élite eurocratiche e ai poteri forti nazionali, espressione speculare di quel sistema globale avverso il quale il grillismo si candidava ad essere forza di governo radicalmente alternativa. Tuttavia, nel volgere di qualche mese, il Movimento ha saltato a piè pari la barricata e si è schierato con coloro che intendeva combattere; nell’azione di governo, in Italia e in Europa, si è trasformato in partito posto a difesa degli apparati e delle élite di potere. E questi tradimenti li ha perpetrati in danno del patto con gli elettori. L’ipocrisia è che il grillismo abbia agito in nome di quella libertà di mandato garantita dalla Costituzione, che invece il suo capo politico, Luigi Di Maio, vorrebbe abrogare.

A qualcuno è sorto il dubbio che forse c’è un problema nella prassi democratica? In passato la letteratura giuridica e politologica ha convenuto nel giudicare il mutato orientamento politico dell’eletto la causa dell’alterazione del rapporto rappresentativo con gli elettori e con il partito. Ma quando è un intero movimento a cambiare bandiera, a ribaltare totalmente il patto con gli elettori, è sufficiente appellarsi alla libertà di mandato garantita dalla norma costituzionale al singolo parlamentare? O non servirebbe meglio alla causa del parlamentarismo procurarsi, come consigliava Costantino Mortati in Istituzioni di Diritto Pubblico, Padova 1958, di verificare che resti “più consono all’indole di governo parlamentare considerare la presunzione di concordanza fra corpo elettorale e parlamentare (presunzione che sta alla base della podestà di quest’ultimo di determinare l’indirizzo politico generale dello stato, vincolante gli altri organi) non assoluta, ma relativa, subordinata cioè alla possibilità di un accertamento in ogni momento della sua reale fondatezza...”?

Nel versante riformista del centrodestra pare sia stato aperto un cantiere per la ricostruzione di un’area politica d’indirizzo liberale. Non sarebbe male che in via preventiva si affrontasse la questione-madre che è la tenuta del modello democratico della rappresentanza. Si vogliono sconfiggere i sovranismi? Si cominci col riportare allo spirito dei Padri costituenti il rapporto tra eletti ed elettori. Almeno per evitare il paradosso degli odierni padroni del vapore in Italia e in Europa per i quali la sovranità popolare è qualcosa di troppo serio per lasciarla nelle mani del popolo.


di Cristofaro Sola