
Il giudice Nino Di Matteo, annunciando la propria candidatura come pubblico ministero alle elezioni che si terranno il prossimo 7 ottobre per rimpiazzare i dimissionari del Consiglio superiore della magistratura, ha dato inizio alla propria campagna elettorale in modo tanto inaspettato quanto crudamente veritiero.
Infatti, egli ha affermato che per i magistrati italiani “l’appartenenza ad una cordata è l’unico mezzo per fare carriera e avere tutela quando si è attaccati e isolati e questo è un criterio molto vicino al metodo mafioso”, aggiungendo che lui vuole invece proporsi come magistrato “fuori dal sistema”, al quale egli intende dare una “spallata”, perché “negli ultimi quindici anni la magistratura è cambiata, pervasa da un cancro che ne sta invadendo il corpo, i cui sintomi sono la burocratizzazione, la gerarchizzazione degli uffici, il collateralismo politico, la degenerazione clamorosa del correntismo”.
Benissimo: meglio tardi che mai, visto che cose simili – anche se senza riferimento alcuno al metodo mafioso al quale mai avevo pensato – chi scrive e il direttore di questo giornale, insieme a pochi altri in Italia, le dicono e le ripetono instancabilmente da decenni, a costo di esser guardati con sospetto dai benpensanti e da coloro che ritenevano la casta dei magistrati sacra e inviolabile, al pari di quell’esercito considerato intoccabile ed infallibile dagli stolidi accusatori di Dreyfus, e dei quali la storia – come è noto – ha fatto giustizia. Tuttavia, le dichiarazioni di Di Matteo, sia per la loro oggettiva gravità, sia perché provengono da un magistrato, per di più candidato al Csm, necessitano di alcune precisazioni, le quali divengono poi interrogativi per lo stesso Di Matteo.
Prima precisazione. Di Matteo mostra di non godere di adeguata memoria storica, parlando di degenerazione in corso da circa quindici anni. Il male ha invece radici molto più profonde, trovando la propria genesi negli anni immediatamente successivi alla nascita delle correnti, la cui presenza inaugurò la politicizzazione interna ed esterna della magistratura.
Si deve individuare nella prima metà degli anni Sessanta – il momento in cui nascono le prime correnti – la genesi del correntismo all’interno della magistratura. E già nei primi anni Settanta, cioè appena un decennio dopo, Salvatore Satta scriveva parole di fuoco contro lo strapotere delle correnti della magistratura e il nocivo grado di inquinamento politico da esse veicolato. Basta leggere alcune pagine a questo tema dedicate dal grande giurista sulla rivista da lui diretta, “Quaderni del diritto e del processo civile”, che forse Di Matteo non conosce e di cui gli consiglio la lettura, anche perché gli potrebbe giovare non poco nel corso della propria campagna elettorale.
Non quindici anni di nequizie. Ma, almeno cinquant’anni, in modo certo sempre crescente e appariscente. Il male sorto in quel decennio, crebbe e si alimentò sotto l’ombrello propizio dell’alleanza con il Pci prima, col Pd dopo ed oggi con i pentastellati. Non solo. Esso fu anche favorito nel suo nocivo articolarsi dalla dabbenaggine di moltissimi, dalla rapace volontà di potenza di molti, dalla opportunistica condiscendenza di quei pochi che, pur godendo del potere per arginarlo, nulla fecero a questo scopo o per timore o per convenienza o per incapacità personale: alludo ovviamente a coloro che pur occupando ruoli istituzionali destinati anche a tale compito ( presidenza della Repubblica, Vicepresidenza del Csm, ministero di Grazia e Giustizia, procura generale della Cassazione), non vedevano o fingevano di non vedere ciò che accadeva sotto i propri occhi.
Seconda precisazione. Di Matteo parla solo di “collateralismo politico” in modo generico e astratto. Invece, bisogna parlarne in senso specifico e concreto. E allora, bisogna distinguere una politicizzazione interna alla magistratura e una esterna. La prima fa sì che le correnti si muovano come veri e propri partiti, confliggano fra loro, cerchino alleanze, sponde elettorali mettendo in opera tutto l’armamentario della contesa politica, la quale ovviamente non può che erigere barriere fra magistrati di opposte correnti o, se è il caso, alleanze. Orbene, tutto questo non può che condizionare pesantemente le decisioni del Csm, innervato dalle correnti. Per questo, la scelta di chi, fra più candidati ad una poltrona direttiva, dovrà occuparla non si basa sul merito del candidato, ma sulle alleanze politiche fra le correnti che del merito effettivo del candidato prescindono completamente.
Poi abbiamo la politicizzazione esterna che, invece, allinea il ruolo della corrente al partito di riferimento e ai suoi bisogni o desideri. Abbiamo le correnti progressiste, quelle conservatrici e quelle riformiste, ciascuna delle quali si affiancherà al partito di riferimento: manco a dirlo il ruolo principale fu svolto per anni in questa direzione dal Pci. Ne è chiarissima prova il fatto che i magistrati per tradizione entravano in Parlamento come indipendenti certo, ma nelle liste del Pci: sono tanti che si fatica a enumerarli. Molti di meno – nella proporzione di circa uno a dieci – nelle liste di altri partiti.
In questa prospettiva, l’esercizio della giurisdizione non può che risultare più o meno condizionato da questa perniciosa forma di vicinanza, al punto da suscitare, in alcuni casi, perfino scandalo; per esempio quando le indagini – se politicamente significative – vengono svolte tutte in una direzione e mai in un’altra.
Terza precisazione. Ha ragione Di Matteo. Il metodo dell’affiliazione correntizia è il solo che garantisca avanzamenti di carriera non puramente derivanti dallo stipendio ed una congrua protezione in caso si incappi in qualche guaio: come dire che il magistrato isolato è un magistrato in pericolo. Stando così le cose tale metodo è affine, come dice Di Matteo, a quello mafioso. Vi sembra poco? Non so se ci si renda davvero conto della gravità inaudita di simili affermazioni che provengono non da un commentatore di fatti di cronaca, non da un avvocato insoddisfatto, non da un rancoroso politico, ma da un magistrato in piena attività di servizio da almeno venticinque anni e candidato al Csm: Di Matteo parifica le correnti della magistratura alle consorterie mafiose, le quali, insieme, costituirebbero addirittura “un sistema”.
Ne viene di filato che le decisioni assunte dal Csm, i cui componenti sono stati selezionati con metodi mafiosi, non potranno non risentire di tali metodi e di adeguarsi ad essi, volenti o nolenti; e che dunque coloro che dovrebbero combattere la mafia covano nel loro seno il germe di un sentire e di un modo di fare mafiosi.
Estremizzando: il procuratore nazionale Antimafia (chiunque egli sia), alla fine, risulta essere selezionato seguendo un criterio similmafioso; e così i capi degli uffici, i procuratori. C’è qualcosa di più assurdo e di più assurdamente pericoloso? Eppure, stranamente, i grandi quotidiani confinano queste affermazioni di Di Matteo in un trafiletto delle pagine interne, appena visibile e da molti forse neppure letto, mentre esse dovrebbero – per la loro gravità – campeggiare su tutte le prime pagine. Che questa “disattenzione” – per dir così – sia una prova, sia pure indiretta, della credibilità delle accuse di Di Matteo, ragion per cui di certe cose particolarmente scottanti sia meglio non parlare o parlare il meno possibile? Forse. Rimangono però alcune domande dirette a Di Matteo alle quali egli dovrebbe rispondere, proprio allo scopo di accreditare le proprie tesi.
La prima. Come mai si è accorto soltanto adesso che il metodo correntizio è di stampo mafioso?
La seconda. Come mai non ha denunciato prima tale grave situazione?
La terza. Dove si trovava e che cosa faceva dieci o vent’anni or sono, quando taceva invece di denunciare?
La quarta. E, visto che taceva, perché taceva?
La quinta. Forse era stato – come si usa in simili ambienti – convenientemente “intimidito”?
La sesta. E come mai adesso – e soltanto adesso, da candidato al Csm – ha deciso di vincere l’omertà denunciando?
La settima. E se non si fosse candidato al Csm, rimanendo semplice (si fa per dire…) pubblico ministero, avrebbe denunciato ugualmente i metodi correntizi come similmafiosi o avrebbe invece continuato come sempre la sua attività, facendo finta di nulla?
Altre domande sarebbero possibili, ma meglio fermarsi. Non si adonti Di Matteo e con tutto il rispetto. Solo per cercare di evitare il fenomeno – assai noto in Italia – speculare e simmetrico: quello della mafia dell’antimafia.
Sono certo che capirà…
Aggiornato il 16 settembre 2019 alle ore 17:02