Di Maio: aspettando Rousseau

mercoledì 4 settembre 2019


La forza delle massime d’antan, a cominciare dall’attesa del leggendario Godot, non poteva non insufflarci gocce di (non) forzata imitazione con quella che in questi giorni di crisi governativa ha fatto scivolare le “certezze matematiche” pentastellate in una sorta di attesa spasmodica e soprattutto mediatica, di un responso, manco fosse un segno degli dei benedicenti (o maledicenti). En attendant Rousseau, dunque.

O, anche, per metterlo un po’ coi piedi per terra questo “spettro che s’aggira per l’Italia, la piattaforma Rousseau, l’unica cosa certa che è rimasta al Movimento 5 Stelle è la più incerta che esista: la votazione sulla piattaforma della Casaleggio Associati, per negare o dare il via libera al Conte bis” (A. Grasso). Appunto.

La democrazia diretta, spostata apoditticamente sul sistema o scelta affidata al web, comporta di certo una serie di controlli per dir così neutrali se non superiori in mancanza dei quali è fin troppo facile se non necessario definirne la parzialità, negata da Beppe Grillo e da Luigi Di Maio e, semmai, implorata se non obbligata ai “partiti morti e sepolti”, fermi colpevolmente, secondo la filosofia, nel suo dispiegarsi in questi anni dal M5S, alle antiche abitudini del correntismo, della partecipazione fasulla e, soprattutto, degli inciuci, la vera malattia mortale della politica e della democrazia, quella vera.

L’inciucio, appunto, e i suoi corollari a cominciare, sempre secondo il grillismo, di lotta (ieri) e di governo (oggi), dalla spartizione di posti, dalla lotta per le poltrone, dalle battaglie per spartirsi commissioni e, soprattutto, enti; pratiche immonde che secondo l’invito urlato (prima) ad aprire il Parlamento come una scatola di tonno dovevano essere abrogate, cancellate dai colpi di spugna del nuovo che avanza, che, anzi, è già avanzato. È nientepopodimeno che installato, e da più un anno, a Palazzo Chigi.

Ha un bel dichiarare Di Maio, fino ad ora capo politico grillino, entrando e uscendo dal palazzo del potere e con intorno selve di microfoni e di telecamere mai esauste, che si sta parlando solo ed esclusivamente di programmi e dei leggendari venti punti sottoposti al volenteroso Nicola Zingaretti mentre, in una sorta di controcanto, sempre sui teleschermi, scorrono nomi e foto degli ipotetici governati grillini e piddini, uno agli Esteri (lo stesso Di Maio), l’altro alla Difesa, l’altra alla questione femminile e l’altro ancora agli Interni. I posti, appunto, le poltrone, i ministeri, gli enti, spartiti ma sempre e comunque con la spocchia e la presunzione tipica dei mentitori, delle anime belle, dei puri e immacolati che uscendo da quel palazzo e sbucando da un’auto di lusso con tanto di autista e di scorta, vorrebbe convincerci che quell’apparato tipico degli uomini che governano il Paese è stato loro concesso dagli altri (il Pd!), è stato loro, per così dire, imposto dal destino di chi vince le elezioni, che proprio da quel potere sono intoccati, vergini, ed ora costrette dal destino cinico e baro a sottomettersi alle sue decisioni inappellabili, a piegarsi alle sue regole, a sacrificarsi, e loro soffrono. Con la correzione del leggendario Giulio Andreotti: s’offrono, con l’apostrofo perché il potere logora chi non ce l’ha. 

Intanto, un Di Maio diventato più piccolo (politicamente) dalla gestione di una crisi dagli aspetti comici, avanza verso camere e telecamere fameliche di dichiarazioni per ottenere il verbo almeno a proposito della sua votazione tramite il Rousseau: non vi dico per chi ho votato, ha confessato. È la recente, ma temiamo non ultima, dichiarazione che, in bocca ad un capo politico – che non ha mai smesso in queste ore di invitare compagni ed iscritti a votare sulla piattaforma – ha un che di improprio, di lunare, di ridicolmente autoriducente il suo ruolo di guida, di insondabilmente se non colpevolmente inconfessabile: nell’attesa. En attendant Godot, per dire.


di Paolo Pillitteri