
La trattativa per la formazione del governo giallo-fucsia si trascina innanzi, nonostante i bruschi stop-and-go che il capo politico dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, imprima regolarmente ai negoziati.
L’ultimo, in ordine di tempo, c’è stato con la dichiarazione rilasciata dallo stesso Di Maio venerdì scorso, alla fine del colloquio con il presidente del Consiglio incaricato. Di Maio ha scandito con insolita fermezza le condizioni irrinunciabili poste al Partito Democratico per varare il nuovo Esecutivo. È questione di contenuti, e non solo. Sul programma, il capo grillino non accetta l’idea che la richiesta discontinuità invocata da Nicola Zingaretti si traduca nella dichiarazione di fallimento del precedente governo giallo-blu di cui i pentastellati sono stati protagonisti. Di Maio non ci sta ad ammettere che è stato tutto sbagliato e che adesso grazie all’arrivo dei “piddini” sarà diverso. E migliore. Il punto dolente è quella richiesta di abiura della politica sull’immigrazione illegale che Di Maio non vuole assolutamente pronunciare. Anzi, rivendica lo spirito e la ratio dei provvedimenti sulla sicurezza. A riguardo, il suo ragionamento non è affatto insensato. Se il grillino ammettesse di aver commesso un grave errore ad assecondare l’ex partner leghista sul fronte del contrasto all’immigrazione illegale, gli lascerebbe campo libero nel rivendicare in esclusiva i buoni risultati conseguiti da un politica di rigore adottata anche per fronteggiare la prepotenza degli altri Stati dell’Ue che pretendono di scaricare il problema migratorio sull’Italia. Se, varato il nuovo Esecutivo, si ricominciasse con gli sbarchi indiscriminati e le decine, centinaia di migliaia di immigrati lasciate sciamare per il territorio nazionale, quanto impiegherebbe l’opinione pubblica a invocare a gran voce il ritorno del “barbaro” Matteo Salvini?
Ma questo dell’immigrazione è soltanto un aspetto di dettaglio del malessere che cova nell’animo del capo dei grillini. La sostanza del problema riguarda il secco rifiuto opposto dai “dem” alla sua richiesta di occupare nuovamente la poltrona di vicepremier. Non si tratta di ambizione personale e sbagliano i media, tifosi dell’intesa Pd-M5S a qualsiasi costo, a raccontarla come se si trattasse di un caso clinico. Il “poveretto” Di Maio, privo di un mestiere al quale ritornare, che pur di soddisfare la sua smodata ambizione sarebbe pronto a far saltare la trattativa. Esiste certo un caso politico sul nome di Luigi Di Maio, ma si tratta della trasposizione per simboli, o per icone, di un dramma collettivo che sta colpendo mortalmente il Movimento Cinque Stelle.
C’è ovviamente la mano dei “dem”, che in astuzia politica non sono secondi a nessuno. Il segretario Nicola Zingaretti nel rimarcare l’appartenenza di Giuseppe Conte al Movimento Cinque Stelle ha piantato un cuneo nell’immagine granitica del “MoVimento”. Se Conte è grillino, questo il sottile ragionamento, è lui e non altri il capo della delegazione pentastellata al governo. Ne consegue che: 1) Al Pd, altro contraente dell’alleanza, spetta di designare il vicepremier unico per equilibrare le forze; 2) Ai Cinque Stelle non spetta di nominare alcun vicepresidente, quindi Di Maio può prendere un ministero ma non essere l’interlocutore dei “dem” all’interno della compagine governativa, perché funzione riconosciuta al premier; 3) Piuttosto che Di Maio vicepremier sarebbe meglio non avere alcun vicepresidente del Consiglio. Ragionamento che non fa una grinza, ma che scalza “Giggino” dalla guida del Movimento. D’altro canto, i “dem” non hanno mai fatto mistero di volere un segno tangibile di discontinuità con il governo precedente.
Ora, se tutta la base parlamentare grillina ha portato sugli scudi il “trasformista” Giuseppe Conte, con la benedizione di Beppe Grillo e di mezza Europa che conta, era tacito che il capro espiatorio da sacrificare sarebbe stato Di Maio. Il figlio della terra di Pomigliano d’Arco sta attraversando un momento di particolare appannamento dopo che è stato piantato in asso da Matteo Salvini. Il terremoto, che è seguito alla maldestra apertura della crisi al buio, ha prodotto nel Movimento il rianimarsi della componente di sinistra che fa capo a Roberto Fico. Giocando sulla paura della maggioranza dei parlamentari pentastellati di perdere prematuramente la poltrona, i congiurati fichiani hanno convinto gli amici di Luigi a voltargli le spalle riconoscendo la leadership di fatto all’astro nascente del trasformismo politico: Giuseppe Conte. Ma la guerra intestina nel Cinque Stelle è solo all’inizio e Di Maio non è ancora morto politicamente. Eppure “Giggino” è solo la punta dell’iceberg. Il bersaglio grosso al quale Giuseppe Conte il “normalizzatore” sta puntando è un altro: la Casaleggio & Associati. Per poter disporre del Movimento Cinque Stelle come massa di manovra nella politica italiana ed europea, il Winston Churchill di Volturara Appula deve sbarazzarsi del potere d’interdizione esercitato da Davide Casaleggio mediante la sua diabolica creatura: la piattaforma Rousseau. Non è un caso che, in simultanea con le dichiarazioni di fuoco di Luigi Di Maio, sul Blog delle Stelle sia apparsa la scritta “Rousseau conta”, posta in epigrafe a una nota che ribadisce la centralità degli iscritti nell’esprimere decisioni vincolanti per i parlamentari grillini. Ecco l’arma nucleare che l’ormai re travicello grillino potrebbe azionare.
Domani gli iscritti alla piattaforma saranno chiamati a votare sul quesito secco: sì o no a un governo col Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte. Se l’attacco al capo politico e alla Casaleggio Associati dovesse avere successo quest’oggi grazie alla sponda del Partito Democratico, potrebbe scattare la trappola del voto su Rousseau. Cosa accadrebbe se la base grillina votasse no al governo con i “dem”? La trattativa salterebbe e si andrebbe dritti a nuove elezioni. Per la colonna dei congiurati fichiani si preparerebbe una “notte dei lunghi coltelli”. Il vendicativo Di Maio si predisporrebbe, da ritrovato capo del Movimento, a riscrivere le candidature alla maniera delle liste di proscrizione: epurati i ribelli, premiati i fedelissimi. “Parcere subiectis et debellare superbos” sarebbe il nuovo comandamento per Luigi da Pomigliano d’Arco.
Cosa realisticamente, invece, accadrà nelle prossime ore? Il Governo giallo-fucsia si farà perché lo ha deciso la signora Angela Merkel da Berlino. È stato il quotidiano “la Repubblica” a dare notizia di una telefonata della lady di ferro con la quale impartiva all’interlocutore italiano, alto dirigente del Partito Democratico, l’ordine perentorio di fare l’accordo con i grillini. Notizia, peraltro, non smentita dagli ambienti del Nazareno. Tuttavia, il vero enigma riguarderà la sua durata. Se Luigi Di Maio sarà tenuto fuori dal gruppo di testa del governo, è assai probabile che la vita del Conte-bis sarà brevissima. Se, al contrario, sarà trovato un accomodamento che salvi la faccia e il peso di “Giggino” nel Movimento, la legislatura andrà avanti parecchio.
Aggiornato il 03 settembre 2019 alle ore 11:16