lunedì 5 agosto 2019
Ai moderati si rivolgono in molti, animati dalla volontà di ricondurli in un’aggregazione politica di centro. Silvio Berlusconi, nell’appello all’“Altra Italia”, ha ipotizzato la costituzione di una federazione comprensiva, appunto, di tutti i moderati, ossia dei liberali, cattolici, popolari, ma anche dei riformisti, europeisti, democratici. Ora, siccome le parole hanno un peso, cerchiamo di capire il significato da dare al termine moderato, di verificare se il Paese abbia veramente bisogno del moderatismo e, in particolare, se abbia bisogno di un moderatismo dal sapore simile a quello di una minestra campagnola, dato che nella pentola messa sul fuoco da Berlusconi dovrebbero finire molte verdure, dai tanti colori.
Non v’è dubbio che l’esigenza avvertita da un’ampia fascia dell’elettorato sia di avere un partito lontano dagli estremismi verbali, d’immagine, di comportamento. Se con “moderato” si vuole indicare una forza in grado di respingere questi tipi di eccessi, allora, sta bene aggettivarla così. E sta bene anche se con “moderato” s’indica un metodo politico, che corre su pensiero e confronto, piuttosto che su Twitter. Non sta bene, invece, se con quel termine s’intende rappresentare l’azione progettuale della futura entità. L’Italia non ha bisogno del moderatismo, né d’origine ottocentesca, simile a quello di Gioberti, d’Azeglio, Balbo o Cavour, né di stampo più recente, dal gusto conservatore, statalista, isolazionista, falsamente identitario, nostalgico del tempo passato.
L’Italia, in realtà, ha necessità di un bagno rivoluzionario! Rivoluzione solo politica, senza baionette, intendiamoci, ma ugualmente incisiva nel pensiero e nell’azione. Ha bisogno di una forza che rivaluti le libertà dell’individuo in ambito sociale, culturale, economico, fiscale. Di un partito che faccia della persona il centro e l’anello di congiunzione fra i grandi valori ereditati dalla storia, a iniziare da quelli ebraici e cristiani, e la liquidità dei tempi moderni; che riduca la penetrazione dello stato nell’economia, nella vita dei singoli e dia a questi gli strumenti per camminare con le proprie gambe; che rimoduli la spesa pubblica, tagli drasticamente quella improduttiva e inutilmente assistenzialistica; che rifondi il sistema tributario, l’ordinamento giuridico e quello giudiziario; che rivitalizzi la ricerca e l’istruzione.
Per il nostro Paese sarebbe un passaggio epocale, sarebbe, appunto, una rivoluzione perché finora nessuna compagine politica ha mai tradotto nell’azione di governo un modello neoliberale, seppure di stampo europeo. Ci sono già oggi, è vero, partiti che sulla carta s’ispirano a questi ideali, ma nessuno è riuscito a realizzarli, se non episodicamente e marginalmente. Ecco perché la nuova creatura non potrà dirsi moderata. Se vorrà essere davvero utile al Paese, dovrà essere fortemente riformatrice, radicalmente riformatrice. Solo in questo modo, d’altra parte, sarà anche in grado di dare “risposte ai bisogni della povera gente”, come diceva Giorgio La Pira, e diventare, così, un partito autenticamente popolare.
L’“Altra Italia” saprà essere tutto questo? La federazione di forze che potrebbero comporla, saprà dare speranza? O si ridurrà a un cartello elettorale, di contrasto degli estremi, ma non abbastanza credibile e attrattivo per trasformarsi in alternativa ideologica di governo? Non dobbiamo avere paura delle rivoluzioni: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”, scriveva Albert Camus in Caligola. Era il 1944, uno degli anni più bui della storia dell’umanità. Ciò nonostante gli uomini e le donne di quel tempo credettero davvero alle stelle, chiesero davvero l’impossibile: per questo ce la fecero a rivederle.
Ora tocca a noi, questo è sicuro. Sarà l’“Altra Italia” la stella alla quale riferirsi? Questo, per ora, è meno sicuro.
di Alessandro Giovannini