giovedì 1 agosto 2019
Dopo le elezioni, l’Europa delle istituzioni si rinnova: nuovo Parlamento, nuova Commissione, nuovo Presidente del Consiglio, nuovo Presidente della Bce. Ma le novità rappresentate dalle persone che ricopriranno le principali cariche non corrispondono ad altrettante novità negli assetti politici che reggono le istituzioni. L’asse PPE-PSE, che si è rafforzato con l’ingresso dei liberali, continua a guidare le operazioni; i partiti critici di questa gestione che possiamo chiamare consociativa hanno un peso decisamente più consistente rispetto al passato, ma non sono in grado di esprimere altro che una nobile opposizione e, oltre a ciò, non sono del tutto compatti, perché fra loro vi sono differenze in alcuni casi anche enormi, quanto a collocazione nei gruppi parlamentari. Le trattative per l’elezione della presidente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, hanno dimostrato la (relativa) forza di questo assetto e la (relativa) frammentazione degli oppositori.
I cosiddetti sovranisti sono andati divisi al voto per la presidenza della Commissione, perché il blocco di Vysegrad ha votato a favore, mentre gli altri (tra cui Lega, Fratelli d’Italia, Rassemblement National) contro, ma si è trattato di un caso speciale e circoscritto. L’elezione del capo della Commissione è un episodio assolutamente singolare, che ha una configurazione politica peculiare e che dunque non può essere preso come parametro per i successivi passaggi di nomine e per i lavori parlamentari, e tuttavia esso ci mostra la struttura di fondo che orienterà questa nona legislatura: il vecchio asse popolari-socialisti, integrato all’occasione dai liberali.
Estorto il voto, con allarmanti messaggi che attribuivano ai sovranisti la volontà di distruggere l’Unione Europea, il blocco popolar-socialista ha richiuso le porte delle istituzioni; i palazzi del potere sempre staccati, anzi: sempre più staccati dalla vita reale dei popoli. Aleggia un’immagine surreale: da un lato l’Europa legale-istituzionale, dall’altro l’Europa reale e vitale. Niente sembra cambiato: stesso orientamento di fondo sulle questioni più rilevanti, stessa difesa del politicamente corretto e stessa ambiguità sull’immigrazione, stesse argomentazioni burocraticistiche, stessa indifferenza nei confronti delle critiche e stesso disprezzo verso chi ha una diversa idea di Europa.
Tutto come prima dunque? In parte sì, però ci sono alcuni rilevanti cambiamenti. La coscienza critica rappresentata dai cosiddetti sovranisti, definizione che assembla partiti conservatori e liberalconservatori che si collocano in un’area di destra democratica (vi sono anche microscopici movimenti di destra radicale, ma sono irrilevanti sia numericamente sia politicamente, e per di più sono emarginati dagli stessi sovranisti liberalconservatori, che giustamente non vogliono essere confusi con quella destra estrema), può farsi sentire con forza tanto maggiore quanto maggiori saranno i motivi di divergenza all’interno dello schieramento di governo. E poiché questi motivi sono numerosi, alta potrà essere la frequenza di tensioni, di lacerazioni e di crisi. E questa è una novità sulla quale fare molta attenzione, perché potrebbe riservare alcune opportunità per incidere sulla monoliticità delle scelte eurocomunitarie in svariati ambiti di grande interesse per i singoli Paesi e per il popolo liberalconservatore in generale.
La ripetizione della vecchia alleanza, apparentemente necessaria per garantire governabilità, porta con sé una differenza sostanziale: l’anomalia di questa alleanza, che risulta evidente se pensiamo alle differenze di ideali e di visione generale fra popolari e socialisti, è oggi più marcata, perché il malessere e l’ostilità di parti rilevanti dell’elettorato europeo non sono più sottaciuti, ma sono emersi e portati fin dentro le istituzioni da quei partiti, che per brevità chiamiamo sovranisti, che vengono considerati irrilevanti per i voti parlamentari.
Ma, soprattutto, quell’anomalia consociativa può essere svelata e incrinata da quella parte dell’elettorato che vota PPE per tradizione (sia come consuetudine, sia come voto a chi difendeva la tradizione) e che oggi vede nei partiti sovranisti maggiore vicinanza al proprio sentimento tradizionale e quindi una possibile alternativa ai popolari. E poiché immaginiamo che il PPE si sia reso conto di questo nuovo scenario, ecco che – forse – quell’alleanza non sarà più così solida come in passato. L’Europa vitale si muove e, pur nella confusione di questa epoca, pur esprimendosi elettoralmente in modo frammentario e talvolta fuori misura, mostra la sua volontà, le sue necessità, aspirazioni, progetti, ideali, l’antica tensione europea alla valorizzazione della propria identità.
Sulla base di questi elementi di novità, che non sono tecnici e nemmeno soltanto politici, ma spirituali perché riguardano lo spirito europeo attuale, lo Zeitgeist europeo, affiora un’esigenza che, appunto, è spirituale prima ancora che politica. Una richiesta che i popoli europei sembrano porre, nel loro silenzio ma con una convinzione diffusa, alle istituzioni europee e in particolare al nuovo presidente della Commissione.
A Ursula von der Leyen, appartenente alla Chiesa evangelico-luterana, chiediamo infatti un segnale simbolico che, al tempo stesso, è di grande potenza concreta, quello cioè di assumersi l’onere (e l’onore) di un’iniziativa per l’introduzione del riferimento esplicito delle radici ebraico-cristiane nel testo fondativo dell’Unione Europea. Si tratta di una richiesta che non potrà essere appoggiata dal neo-presidente del Parlamento, socialista, ma certamente sì da quei gruppi parlamentari che, in varia forma, hanno una visione cristiana del mondo e una prospettiva liberalconservatrice della politica.
Una richiesta che da un lato nasce dal profondo disorientamento spirituale in cui gli europei si trovano oggi, nonostante la forza delle istituzioni comunitarie o forse proprio a causa della loro chiusura centralistico-burocratica nei confronti dell’Europa vitale e reale, e dall’altro lato si collega con l’esigenza di re-cristianizzazione dell’Europa, intesa come rigenerazione della nostra identità. E che, infine, rappresenta una risposta elevata alla crisi che, senza alcun dubbio, pervade oggi il nostro continente.
Che l’Europa sia in crisi non è certificato dagli indicatori economici, ma è assodato osservando i segnali dello spirito. E c’è un luogo, simbolico ma altamente concreto, nel quale è racchiusa la genesi dell’attuale crisi di identità dell’Europa: il testo della Convenzione europea del 2001-2003, nel quale non c’è traccia della matrice ebraico-cristiana, estromessa perché troppo identitaria e quindi di ostacolo allo sbriciolamento multireligioso e multiculturalistico previsto dagli strateghi di questa Europa vuota e prostrata. La parte più consistente, anche se sotterranea, dell’attuale crisi europea viene proprio da quell’atto in apparenza trascurabile ma simbolicamente decisivo, perché l’identità è il luogo del riconoscimento e della differenza: del riconoscimento che si ha di se stessi e di quello che gli altri rivolgono a noi; della differenza fra il sé e l’altro, fra un popolo e altri, fra una religione e le altre.
L’identità è la dimensione fondamentale dell’esistenza individuale e collettiva, perché è ciò che ci permette di parlare in prima persona, singolare o plurale, e di assumere pertanto la responsabilità di ciò che diciamo o facciamo. In quanto presupposto della coscienza di sé e dell’agire nei confronti degli altri, l’identità è il fondamento dell’etica. Non è vero ciò che buonisti e cattocomunisti, sprovveduti gli uni e ideologizzati gli altri, predicano e impongono, e cioè che l’identità sia un elemento secondario rispetto alla primarietà dell’etica. No, non c’è alcuna etica senza una precisa identità.
L’etica, come sapevano i greci, si fonda sull’ontologia. Un’etica senza luogo, inteso come territorio e come coscienza, è fasulla, inconsistente e, per certi aspetti, immorale. Certo, rimane valido l’universalismo di alcuni principi fondamentali, ma è un tragico errore privare l’etica del radicamento concreto in uno spazio. Un’etica senza luogo è una contraddizione morale. Il territorio dell’Europa è lo spazio dell’etica europea, e poiché quest’ultima è essenzialmente greco-romana ed ebraico-cristiana, è necessario ricordare sempre questo nucleo identitario, e agire secondo la tradizione, complessa e ramificata, che ne è sorta.
Omesso dal Trattato nato dalla Convenzione, questo segno distintivo, identitario appunto, è stato cancellato dallo spazio pubblico europeo, ma non estirpato dalla coscienza spirituale e, anzi, sembra ricomparire come un fantasma che non si è riusciti a dissolvere. Ed è giunto il momento di ridargli vita, collocandolo nel suo luogo eminente. I paragrafi di quel documento non sono tavole della legge, né articoli di una vera Costituzione, ma una dichiarazione di intenti, e come tali possono essere, secondo le procedure, modificabili. Certo, si frappongono ostacoli normativi, perché la perfidia della burocrazia arriva fino a creare un labirinto inestricabile, forgiato per rendere impossibile o almeno difficile trovare strade e soluzioni nuove, non già previste dalla logica politicamente corretta.
Ma le dichiarazioni, in genere, si possono cambiare. Legittimate a farlo sono le maggioranze parlamentari, in quanto espressione della volontà popolare. In questo caso, il Parlamento europeo sarebbe il luogo deputato. Ma perché almeno due legislature di governo europarlamentare del PPE sono trascorse senza che si operasse questa variazione? Evidentemente è mancata la volontà, non la possibilità.
Non sarebbe ora il momento di farlo? Se posta dai sovranisti liberalconservatori, questa domanda, che a questo punto sembrerebbe ingenua se non addirittura irrealistica, rappresenta invece una proposta che il PPE non può rifiutare, non almeno senza lacerazioni profonde nella propria coscienza religiosa e spirituale. Sollecitati su questa tonalità profonda, la Presidente della Commissione e il PPE dovrebbero assumersi un impegno di rifondazione dell’identità europea con un unico, decisivo gesto: riscrivere quell’articolo e inserirvi, finalmente, la citazione esplicita delle radici ebraico-cristiane.
Si tratta di un impegno gigantesco, rischioso, che richiede coraggio, ma cosa sarebbe dell’Europa se in altre epoche singole personalità non avessero avuto il coraggio di rischiare tutto per la sua idea, per la sua identità? Cosa sarebbe di essa se Jan Sobieski, re di Polonia, non avesse osato, mettendo a rischio perfino l’esistenza del suo popolo, sfidare i turchi alle porte di Vienna, sconfiggendoli in quel fatidico 11 settembre del 1683? Certo, una parte del mondo musulmano ha tentato per secoli di far pagare all’Occidente quella sconfitta, fino a produrre il loro, nefando e aberrante, 11 settembre, quello di New York, e cercando tutt’oggi di ripeterlo, ma quello fu per l’Europa un momento esaltante che va ricordato, anche nel suo simbolismo.
Nelle epoche di crisi, e la nostra innegabilmente lo è, il bisogno di senso che i popoli avvertono viene disatteso, eluso o sviato verso falsi obiettivi, e proprio perciò i simboli assumono un valore straordinario. E poiché l’Unione Europea sta, da troppi anni, negando e rimuovendo quel bisogno, strumentalizzandolo e riempiendolo di contenuti fuorvianti (e quindi falsi), è necessario riaffermare il valore dei simboli autentici, per ridare valore alla nostra identità e senso all’esistenza storica dell’Europa. Questa riaffermazione esige un’azione concreta, che deve iniziare però con atti simbolici.
Si riscriva dunque quel primo passo del Trattato para-costituzionale; lo si trasformi nella prima pietra di un nuovo edificio europeo, e il corso stesso della storia europea potrà cambiare di segno, e di senso. Veicolo di questa iniziativa potrebbe essere il centrodestra italiano, che almeno in questa occasione si ritroverebbe unito anche nel Parlamento europeo. Certo, occorre determinazione, lungimiranza e audacia, ma se manca questo coraggio, nessuna azione istituzionale potrà invertire la rotta autodistruttiva che, nonostante le apparenze, nonostante cioè la forza economica, l’Unione Europea ha imposto all’Europa.
di Renato Cristin