
Ieri la testa di Matteo Salvini avrebbe dovuto ruzzolare per i colpi inferti dall’opposizione di sinistra, sotto lo sguardo compiacente di un Movimento Cinque Stelle interessato a vedere ridimensionato il proprio alleato/avversario.
Peccato che questa fiction non sia andata in onda ma si sia visto un altro film. Il piatto forte della giornata politica doveva essere il “processo” a Salvini per i presunti finanziamenti negoziati dal militante leghista e faccendiere Gianluca Savoini con i vertici della Federazione russa. Il segnale di fare fuoco sul condannato l’avrebbe dovuto dare il premier Giuseppe Conte per il tramite del suo intervento al Senato. L’informativa c’è stata ma è stata una pistolettata a salve. Il premier si è limitato a una pedante ricostruzione dei fatti, priva di alcuna conseguenza politica. Ha riferito che il signor Savoini, indagato dalla Procura di Milano per il reato di corruzione internazionale, non avesse alcun ruolo ufficiale nell’ambito della struttura governativa. Cosa arcinota all’opinione pubblica. Nessuna citazione di informazioni provenienti dai Servizi segreti sui rischi per la sicurezza nazionale derivanti dai contatti moscoviti del signor Savoini o di altri dirigenti della Lega. L’unica notizia degna d’interesse, Conte l’ha scodellata nel preambolo del discorso al Senato. Nel manifestare grande rispetto per la funzione del Parlamento il premier ha detto chiaramente che, in caso di caduta del Governo, intende parlamentarizzare la crisi. Conte non ha alcuna intenzione di farsi da parte per cui in caso di rottura traumatica del patto di Governo Lega-Cinque Stelle, lui personalmente si farà carico di cercare un’altra maggioranza in Parlamento disponibile a sostenerlo, anche trasversale al quadro politico.
Quindi, i timori di Salvini sul non automatismo tra caduta del Governo giallo-blu e ritorno alle urne erano più che fondati. E per quanto appaia disdicevole che si provi a rabberciare una tela strappata pur di restare al proprio posto alla guida del Paese, i numeri parlamentari per un governo di responsabilità nazionale targato Giuseppe Conte e benedetto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella potrebbero esserci. E non solo a sinistra. Come ha spiegato di recente Dario Franceschini in un’intervista al Corriere della Sera, i “dem” dovrebbero prestarsi a un’operazione di palazzo al fianco dei Cinque Stelle in nome dei “comuni valori” per mettere fuori gioco la Lega. Ma il colpo a sorpresa che ha tolto centralità alla vicenda del “Russia-Legagate” è stato il comportamento del gruppo dei Cinque Stelle al Senato. Nel momento in cui prendeva la parola il presidente Conte, la maggior parte dei senatori grillini lasciava l’aula in segno di protesta. Un gesto incredibile di una politica spinta ai confini della realtà. I capi pentastellati pur di minimizzare il fattaccio si sono affrettati a dire che si è trattata di una protesta nei confronti di Matteo Salvini che avrebbe dovuto essere presente in aula al posto del premier a rispondere alle domande dei parlamentari. Ma si tratta chiaramente di una bugia che non regge. La verità è che i senatori grillini ce l’avevano proprio con Giuseppe Conte dopo che lui, l’altro ieri, ha comunicato il suo sì alla costruzione del Tav Torino-Lione, ribadito nel Question time alla Camera dei deputati pochi minuti prima del discorso al Senato. Una botta micidiale per i Cinque Stelle che hanno fatto della battaglia No-Tav il principale cavallo di battaglia.
La giornata è stata resa più nera ai pentastellati dal coincidere di due eventi importanti, entrambi favorevoli a Salvini: lo sblocco di 50 miliardi di euro da parte del Cipe per il finanziamento di opere pubbliche ferme da anni e l’approvazione, a larga maggioranza, del primo passaggio parlamentare del Decreto Sicurezza bis. In pratica, ieri il “Capitano” ha vinto su tutta la linea. In più, ha assistito al testacoda parlamentare dei Cinque Stelle ormai in evidente crisi di nervi. A lui non è rimasto altro da fare che confermare la fiducia al Governo sfidando il premier Conte a palesare eventuali piani segreti volti a precostituirsi convenienti uscite di sicurezza. Intanto, un altro passo avanti verso l’implosione dei Cinque Stelle è stato compiuto. Prima o dopo, a furia di ingerire amari calici, il Movimento finirà per frammentarsi in mille pezzi. Ma resterà sempre viva un’ala governista in grado di mandare avanti l’alleanza con la Lega. Il Cinque Stelle ha mostrato, in Italia e in Europa, la sua natura autentica che è quella di un vascello molto manovriero, il cui solo scopo esistenziale è di restare a galla, con qualsiasi mare. Fin quando il clima politico continuerà a peggiorare i grillini governativi prenderanno a navigare sottovento. Non sono stupidi, anche loro hanno presto imparato la massima per la quale “primum vivere deinde philosophari”.
Al momento, acque tranquille per Salvini vista anche la blanda reazione del Partito Democratico da cane che abbaia ma non morde. I “dem” avrebbero potuto cogliere l’occasione per assestare una bordata all’odiato Salvini. Invece, sono riusciti a dividersi financo su chi dovesse intervenire in Aula a rispondere al premier Conte. Si era detto Matteo Renzi. Poi dalla segreteria del Pd è arrivato il niet. Solito tira-e-molla e il compromesso si è trovato sul senatore Dario Parrini, un filorenziano di seconda fila. Alla fine del dibattito, quando l’attenzione era rivolta altrove, un distratto capogruppo piddino ha annunciato che quanto prima il Partito Democratico presenterà una mozione di sfiducia individuale contro il ministro Salvini per il suo reticente silenzio sull’affare dei rubli di Mosca. Un colpo sparato a vuoto. I compagni non hanno capito che su quel fronte è come lavare la testa all’asino: sprecano acqua, sapone e tempo. Salvini non si presterà a rinfocolare la polemica con dichiarazioni scomposte. Il leader della Lega non fa un passo senza averlo concordato con la sua sodale di partito e amica personale, Giulia Bongiorno. Il ministro per la Pubblica Amministrazione, ancorché essere un politico, è un avvocato penalista di prima grandezza. E come tale avrà imposto il silenzio al suo segretario almeno fin quando la Procura di Milano non avrà mostrato le carte che ha in mano e se fra di esse non vi sia nascosto uno sgradito asso. Già, perché essere un leader vincente è anche questo: saper scegliere i consiglieri migliori. A cominciare dagli avvocati. Non come certe corti dei miracoli che hanno fatto la rovina del proprio mentore.
Aggiornato il 25 luglio 2019 alle ore 10:27