
È in un certo senso noioso, simile più a un ostinato ritorno che a una riflessione storico-politica, riparlare di quel Francesco Saverio Borrelli che, pace all’anima sua, se n’è andato con tanto di articoli elogiativi e servizi televisivi da stupire soltanto quelli che si accorsero in ritardo, ahimè, dei risultati più veri della mitica inchiesta giudiziaria milanese.
E che i quotidiani - fra cui il nostro di cui il direttore Diaconale dedicò nell’Anno del Signore 1995, cioè di Borrelli, il libro dedicato al golpe giudiziario del 1992 - che hanno sollevato qualche critica si contino sulle dita di una mano spiega tante cose di allora. E anche di oggi.
Certo, di oggi che al governo sono collocati i due partiti-movimenti più giustizialisti in campo e il cui dominio è assicurato anche da un’opposizione praticamente inutile se non muta, basti pensare al silenzio assordante di una Forza Italia contro il cui leader Silvio Berlusconi s’alzò il grido borrelliano “resistere, resistere, resistere” con quel che ne è seguito, tanto più che, proprio dai governanti odierni, a cominciare ovviamente dai grillini, sublimi cantori e usufruttuari del giustizialismo populista, si sono sentite le lodi più sperticate.
Ma ciò che colpisce e non può non lasciarci indifferenti è proprio quel coro mediatico che, ad oltre un quarto di secolo, ha esaltato la figura dell’ex capo della procura meneghina dal quale i mitici Pm, iniziando da Antonio Di Pietro, hanno avuto non soltanto l’incondizionato sostegno ma le cosiddette linee guida di un’operazione che doveva bensì contribuire al rinnovamento necessario, ma con un prezzo altissimo e traumatizzante non solo o non soltanto nell’annientamento di una classe politica il cui modus operandi si prestava alle critiche più aspre, certamente, ma non a quel finale che era comunque già scritto e del quale il leggendario urlo dipietresco (“io quello lo sfascio”) era un grido di guerra sul quale proprio la maggior parte di media si buttò e lo rilanciò sulle prime pagine, aumentando vieppiù la voglia di forca di un’opinione pubblica alla mercé di un disegno al quale l’elegante e signorile Borrelli non era estraneo, anzi.
La giustizia spettacolarizzata, poggiata sull’inchiesta “Mani Pulite” – nome che con Tangentopoli, la Milano da bere ecc. è stata fin da subito battezzata ad usum delphini – ha distrutto un ceto politico, colpendo e affondando il leader più rappresentativo, Bettino Craxi, e via via tutti gli altri ma, pur riuscendo a mandare a casa un’intera classe dirigente democratica, si guardò bene dal toccare l’ex Pci di Berlinguer, Occhetto, D’Alema e seguenti, che a proposito di tangenti e finanziamenti, soprattutto dall’Urss, era percettore e fruitore. E forse il poco letto libricino di Castellacci edito dalla SugarCo nel 1977 e dedicato alla tangenti rosse, avrebbe costituito una sorta di testimonianza in controcanto se il colto Borrelli ne avesse letto qualche passaggio. Ma così non fu, oppure, chissà.
Ma la stessa buona stella manipulitesca che favorì i postcomunisti fu del tutto inutile nel seguito dell’inchiesta che delegittimò non solo o non soltanto i partiti, ma soprattutto la politica tout court producendo un autentico vuoto che fu riempito, con grande sorpresa e amarezza di Borrelli, prima da Forza Italia e dal berlusconismo e poi dall’antiberlusconismo, e oggi da un doppio giustizialismo, di destra e di sinistra che governa e che promette, tramite soprattutto Facebook, incontri televisivi e dichiarazioni pluriquotidiane, le riforme più importanti delle quali si sono viste, fino ad ora, i ritagli televisivi a cominciare da quella sulla giustizia della quale, peraltro, ci basta il semplice annuncio per provocarci una sorta di tremore venoso.
Invero, lo stesso Francesco Saverio Borrelli, sia pure ex post, si è chiesto se fosse valsa la pena la distruzione di quelli di prima nel vedere i risultati di quelli odierni, ponendosi, insieme al quesito, l’obiettivo implicito di ripristinare un equilibrio dei poteri che era stato infranto non soltanto con la supervisione del nostro dottor Sottile, ma dalla furia giacobina che partì dall’inchiesta di Tangentopoli con la sua sete di sangue altrui (e di suicidi) e trasformando il Paese in una immensa Piazzale Loreto di stampo giudiziario.
Con i media osannanti allora, e oggi in lacrime se non in ginocchio – vedi appunto lo straziato Di Pietro – come davanti ad un’immagine votiva se non a un personaggio del quale pare iniziato, almeno su quei giornali, ma meno, molto meno in un funerale con una visibilissima assenza di partecipazione dei milanesi, un processo di santificazione per una richiesta di un Borrelli Santo. E subito.
Aggiornato il 24 luglio 2019 alle ore 12:25