Intendiamoci: il giustizialismo è tornato, più vivo che mai. Non se n’era mai andato a dire il vero, ma a maggior ragione il nostro direttore insiste evocando l’antico invito rosselliano a non mollare con i giustizialisti.

Anche e soprattutto perché sta in questo ritorno di fiamma una delle ragioni primarie dell’abbassamento se non dell’annullamento della politica, che proprio da chi brandisce le inchieste come l’unica bandiera per catturare consensi viene per così dire assorbita e trasformata in una sorta di guerra di tutto a tutti.

In un quadro generale, in cui il grido di onestà onestà risuona ben oltre il richiamo alle sue ragioni sacrosante, ma diventando l’oggetto contundente non soltanto contro i disonesti – che se lo meritano, comunque – ma il contenuto, potente ma unico della vita pubblica riassumendo in sé ogni strategia, ogni indirizzo, ogni progetto.

E si finisce, come sta accadendo da mesi, in una guerra del tutti contro tutti in cui primeggia in queste ore un invito ad una sorta di lotta armata (a parole, per adesso) degli antifascisti contro i fascisti esemplificata dall’espulsione dal Salone del libro di Torino di CasaPound e dell’editore Altaforte, che non sono affatto in linea con l’antifascismo, anzi. Imminenti se non già in corso le inchieste giudiziarie a proposito di apologia del fascismo. Si vedrà. Leggeremo, come si dice, le carte.

A proposito delle carte (giudiziarie) non sembra che la sua lettura, se c’è stata (ma ne dubitiamo), sia stata particolarmente attenta in riferimento alla cacciata dal Governo del sottosegretario Armando Siri. Una vicenda che ha comunque indebolito l’irruento procedere di un Matteo Salvini preso di sorpresa.

Una sorpresa che ha accentuato, al contrario, il sotterraneo dissidio con un Luigi Di Maio del quale il giustizialismo in salsa (piccante) è stato ad un tempo il facitore e il conduttore politico favorendo una messe di consensi che lo colloca non soltanto al governo del Paese con la Lega, ma con qualche ministro in più di Salvini; il che fa, ha fatto e fa la differenza, secondo non pochi osservatori, nelle dimissioni di Siri contro le quali si erano spese alte le fiamme e forti i fuochi salviniani.

Si assiste così nel Governo a quella deriva che ha nella guerra interna erga omnes una esplicitazione pressoché day-by-day, se non pluriquotidiana, a proposito degli argomenti più vari, utili ad aprire nuovi fronti, vedi quello in atto condotto da Salvini contro la droga come la cannabis light e contro i negozi nei quali è posta in vendita anche e soprattutto perché la Cassazione nel gennaio scorso ha sancito che trattasi di una attività legale. E non a caso il responsabile di Federcanapa ha respinto le accuse salviniane sui negozi come luogo di spaccio con un severo “si occupi come ministro degli Interni dello spaccio di droghe quotidiano fuori dalle scuole”.

Colpito e affondato? Niente affatto giacché la sua presenza su La7 dell’altra sera e con una Lilli Gruber poco o nulla amica di Salvini ne ha, semmai, alzato o rialzato le quotazioni nella borsa governativa sullo sfondo di un’opposizione che definire latitante è poco, se non si aggiunge l’aggettivo colpevole, sia perché una democrazia senza opposizione non può più chiamarsi tale, sia perché i governanti, senza alcuno stimolo contrario e propositivo, rischiano di esagerare, cioè di sbagliare.

Il fatto è che delle alte se non imponenti e comunque numerose riforme dell’accordo scritto fra leghisti e pentastellati s’è visto fino ad ora ben poco e la stessa decisione sulla riduzione del numero dei parlamentari, benché vada nella direzione giusta, diventa una sorta di schermo per nascondere un vuoto riformistico riempito spesso da promesse roboanti, da impegni declamatori, da assicurazioni simili a spergiuri in cui prevale il cattivo genio del populismo e della demagogia, che di per sé sono di nocumento a coloro cui vengono indirizzati ma, a volte, a anche ai pronunciatori.

In questo quadro non sono difficili da intravedere altri scontri, compreso quello finale a proposito dello stesso Esecutivo (benché una delle date certe sia rappresentata dalle vicine elezioni europee) sullo sfondo di una sempre più evidente – nei diversi ma non banali sondaggi – dicotomia non solo fra Esecutivo e Paese, ma fra la politica e il popolo segnalando una disaffezione che, a quanto pare, toccherà meno la Lega che il Movimento 5 Stelle, ma non può non suscitare un allarme preoccupato giacché la guerra del tutti contro tutti ha come vessillo quel giustizialismo che, negando le garanzie per qualsiasi imputato, sta facendo di tutto per buttare fuori dalla porta la politica. O quel poco che ne resta.

Aggiornato il 13 maggio 2019 alle ore 11:07