
Il Movimento cinque stelle, in affanno nei consensi, ha puntato le ultime carte prima della verifica elettorale delle Europee su un attacco frontale alla Lega. L’asso nella manica è “l’affaire Siri”. I fatti sono noti. Il sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Conte, Armando Siri amico e stretto collaboratore del “capitano” Matteo Salvini è stato raggiunto da un avviso di garanzia della Procura del Tribunale di Roma che lo indaga per un presunto reato di corruzione. Il sottosegretario, per gli inquirenti, avrebbe tentato di favorire un imprenditore siciliano del settore dell’energia eolica, in odore di rapporti con la mafia. Scoppiato il caso mediatico i Cinque stelle non hanno perso tempo a cavalcarlo.
Di Maio ha chiesto le dimissioni di Siri dall’incarico di governo; il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha revocato tutte le delegate affidategli; nel Movimento è cominciato il tam-tam dei tamburi di guerra perché sia il premier Giuseppe Conte a mettere alla porta il sottosegretario infedele. Il collante della rabberciata strategia d’attacco grillina è la consunta “questione morale”. Dicono dai Cinque stelle che il sia pur minimo sospetto di reato in carico a un politico, per di più membro dell’esecutivo, deve comportarne l’immediato allontanamento dagli incarichi pubblici. Naturalmente, non pensiamo affatto che Di Maio e compagni credano a ciò che dicono. Soprattutto, non pensiamo che il capo politico dei Cinque stelle abbia contato sul sostegno di Matteo Salvini all’intimazione di sfratto dagli uffici del ministero delle Infrastrutture, notificata per via televisiva dal capo grillino all’interessato.
Al contrario, Di Maio ha puntato sulla reazione negativa del “capitano”. Qualche spin doctor grillino, particolarmente furbo, deve averlo convinto che riuscire a tenere il competitor leghista inchiodato alla strenua difesa del suo protetto, almeno fino alle urne delle Europee avrebbe pagato in termini di consensi. Con qualche effetto di contorno non trascurabile se posto in prospettiva rispetto ad un’eventuale prossima sfida per la leadership di governo tra Lega e Cinque stelle. I grillini devono aver valutato Armando Siri come il bersaglio perfetto di una strategia aggressiva in ragione della sua triplice vulnerabilità.
Primo: Siri non è nuovo agli inciampi giudiziari. Ha un precedente penale significativo. Il senatore leghista ha patteggiato la pena ad un anno e otto mesi di reclusione per una condanna per bancarotta fraudolenta. La macchia sul certificato penale pregiudica quella specchiata condotta che, di regola, dovrebbe richiedersi a un politico che assume un’alta funzione di governo.
Secondo: Armando Siri non è un nativo del leghismo del nord. È approdato alla corte di Matteo Salvini in tempi relativamente recenti. Nonostante ciò si è candidato al ruolo di ideologo del Movimento salviniano, ritagliandosi il compito di mettere in piedi e dirigere le scuole di formazione politica della Lega in barba ai dirigenti della prima ora, non felicissimi di constatare che l’ultimo arrivato li sopravanzasse nell’assetto di governance del partito.
Terzo: Siri non ha titoli accademici per definirsi economista, eppure si è proposto all’attenzione del leader per essere il padre putativo della riforma fiscale relativa all’introduzione della cosiddetta Flat tax, la tassa piatta. In realtà, Siri lo si può considerare il divulgatore delle teorie fiscali di Alvin Rabushka, ricercatore presso l’ Hoover Institution della Stanford University. Rabushka, insieme a Robert Hall, è l’autore di uno studio per l’introduzione della tassazione piatta nelle società capitalistiche avanzate.
La primogenitura italiana dell’idea di Flat tax ha indotto Siri a considerarsi il consigliere economico di Matteo Salvini e a puntare ad un ruolo di primo piano al ministero dell’Economia nel costituendo governo gialloverde. Ambizione, tuttavia, delusa perché nella cabina di regia della centrale di spesa sono finiti due leghisti di provata competenza nel settore e di lungo corso nella militanza nel Carroccio: Massimo Bitonci e Massimo Garavaglia, mentre all’eminenza grigia leghista, Giancarlo Giorgetti, sono state affidate le chiavi del Cipe. Visto il frastagliato profilo, Di Maio ha scommesso su Armando Siri come anello debole dell’organigramma leghista. Lo scandalo caduto sulla campagna elettorale in corso come cacio sui maccheroni – quanto fortuitamente bisognerà verificarlo – sembrava dare ragione ai calcoli del leader pentastellato.
Ma è buona regola saper organizzare i complotti nei più piccoli dettagli o, nel caso si voglia pendere spunto da un accadimento imprevisto per montarne uno ad arte, è necessario prima informarsi, leggere perbene le carte e approfondire la consistenza dello scoop che s’intende cavalcare per evitare di finire sulla classica buccia di banana. E i grillini, essendo notoriamente gran pasticcioni, questa volta hanno affondato entrambi i piedi in una montagna di escrementi. Il quotidiano La Verità ha pubblicato ieri una notizia-bomba. L’intercettazione che avrebbe inchiodato Siri non esiste. È una bufala, visto che non sono presenti agli atti dell’indagine né l’audio né la trascrizione dell’intercettazione effettuata dalla polizia giudiziaria. Nella ricostruzione del giornalista Giacomo Amadori, la frase incriminata: “questa operazione ci è costata 30mila euro”, attribuita all’intermediario Paolo Arata e riferita ad Armando Siri non è mai stata pronunciata, per cui sarebbe da chiedersi da dove l’abbia tirata fuori il Corriere della Sera che per primo ha dato la notizia e che, per dirla con Amadori, avrebbe inchiodato Siri alla croce.
Ma se non c’è l’intercettazione, se non sono stati trovati i soldi nelle tasche del corrotto e se non c’è il beneficio per il quale il corruttore avrebbe pagato il politico infedele, l’inchiesta non sta in piedi. Resta, invece, l’onore leso di Siri che da mariuolo e farabutto si trasforma in martire e santo. E i Cinque stelle da campioni della moralità si beccano la palma che finora è appartenuta a Decio Cavallo, il simpatico ma sprovveduto “cafoncello” italo-americano che, in un celebre film degli anni Sessanta, compra da Totò la Fontana di Trevi. Luigi Di Maio adesso rischia il tipico effetto boomerang o effetto del cetriolo volante. Scelga lui la definizione che meglio si adatta al caso.
Aggiornato il 29 aprile 2019 alle ore 10:32